Giuseppe O. Longo, Avvenire 3/8/2010, 3 agosto 2010
RIVOLUZIONE VERDE
Riso, frumento, granturco. E non solo: i cereali così importanti per l’alimentazione umana. Tra il 1950 e il 1990 qualcosa accade, in molti Pesi del Terzo Mondo, in particolare Asia e America Latina. La produzione comincia ad aumentare. Vertiginosamente. È la ’rivoluzione verde’.
La rivoluzione verde fu il risultato di consistenti investimenti nella ricerca agroalimentare, che portarono allo sviluppo di colture ad alto rendimento e, insieme, alla preparazione di prodotti agrochimici più efficaci, come fertilizzanti, insetticidi e diserbanti.
I prodromi della rivoluzione verde risalgono al 1944, quando lo scienziato statunitense Norman Borlaug cominciò a introdurre in Messico tecniche agrarie innovative, con l’intento di ridurre il rischio di carestie. Il terreno messicano era depauperato, le piante devastate dalle malattie e dai parassiti, le rese scarse e i contadini sopravvivevano a stento. Finanziato dalla Fondazione Rockefeller, il lavoro di Borlaug produsse in pochi anni risultati straordinari: mentre prima il Messico doveva importare metà del fabbisogno di frumento, nel 1956 otteneva l’autosufficienza e nel 1964 esportava mezzo milione di tonnellate di grano. Oggi le tecniche della rivoluzione verde sono diffuse in tutti i continenti, anche se la loro applicazione si è rivelata difficile in alcune aree dell’Africa subsahariana, che soffrono ancora di carestie ricorrenti.
Il successo di queste tecniche fu tale da consentire alla produzione agroalimentare di tener testa all’aumento della popolazione: dopo il 1950 la produzione pro capite aumentò di continuo e si poté cautamente affermare che le drammatiche previsioni di Malthus erano state scongiurate. Nel 1798 l’economista e demografo inglese Robert Malthus (1766-1834) aveva pubblicato un saggio in cui sosteneva che l’incremento della popolazione avrebbe spinto alla coltivazione di terre sempre meno fertili, con la conseguenza che alla lunga il cibo prodotto non sarebbe bastato per nutrire tutti gli abitanti della terra.
Mentre infatti la produzione alimentare cresce con progressione aritmetica, la popolazione cresce con progressione geometrica, dunque molto più rapidamente.
Di qui l’invito di Malthus al controllo delle nascite, che peraltro doveva, nella sua visione, essere affidato alla sola castità. Le sue idee sono tuttora al centro di animati dibattiti tra economisti, ecologisti e demografi.
Le tecniche agricole della rivoluzione verde si basano sull’introduzione di sementi ibride, ottenute mediante la riproduzione incrociata di molte varietà locali, e mirano in primo luogo all’aumento delle rese e della resistenza agli agenti patogeni, ma, in subordine, anche a una maggiore uniformità dei prodotti, in modo da poter applicare su larga scala macchinari capaci di automatizzare ogni fase della coltivazione. La base della rivoluzione verde consiste nelle modificazioni genetiche delle colture mediante incroci e ibridazioni. Ma non mancano altri ingredienti essenziali. Ad esempio, l’uso massiccio di fertilizzanti, che permette di aggiustare la composizione chimica del suolo e di fornire alle piante i composti di cui hanno bisogno per svilupparsi, soprattutto i nitrati e i fosfati. Tradizionalmente tali composti erano forniti dai fertilizzanti organici (concimi animali) o grazie a pratiche storiche, come la rotazione delle coltivazioni (sovescio). C’è poi l’irrigazione razionale dei suoli, che consente di ottenere più di un raccolto all’anno, riducendo nelle zone tropicali la dipendenza dalle piogge monsoniche. E ancora l’uso imponente di macchine agricole, come le mietitrici. Infine l’impiego sistematico di prodotti fitosanitari (diserbanti e insetticidi) per estirpare le malerbe e per distruggere gli insetti nocivi. Una caratteristica importante delle varietà ottenute con i metodi della rivoluzione verde riguarda l’aumento dello sviluppo di quelle parti della pianta che trovano impiego alimentare rispetto alle parti inutilizzabili. Per esempio, nel caso del granturco le varietà ibride sviluppano di più la pannocchia rispetto alle foglie e al gambo. Nel caso del riso si sono confrontate le rese di due varietà, una ibrida e una indiana locale: entrambe forniscono la stessa biomassa per ettaro, ma su 1000 chilogrammi la prima produce 500 chilogrammi di paglia e 500 chilogrammi di grani, mentre la varietà locale produce 700 chilogrammi di paglia e 300 di grani.
C’è tuttavia da osservare che se sotto il profilo dell’agricoltura industriale la paglia non può essere considerata un prodotto utile, e quindi si cerca di ridurla al minimo, nell’ottica dell’agricoltura tradizionale essa può essere usata in tanti modi, ad esempio per nutrire gli animali, che sono per tradizione la fonte per eccellenza di energia a basso costo e producono gratuitamente preziosi concimi organici. La paglia e gli altri prodotti di scarto possono anche reintegrare un terreno deprivato dei suoi nutrienti oppure consentono di produrre energia da biomassa.