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 2010  agosto 03 Martedì calendario

BARACK E LA STRETTOIA VERSO KABUL

La guerra in Iraq è finita, ma è ancora troppo presto per andarsene in pace. A Baghdad non c’è ancora un governo, cinque mesi dopo le elezioni di marzo. Sono cose che capitano anche alle democrazie mature: in Belgio, due mesi dopo il voto, non si sono ancora messi d’accordo. Siamo entrati nel mese di ramadan e le trattative su chi dovrà guidare l’esecutivo iracheno non riprenderanno prima di settembre. Luglio è stato un mese violento. Iracheni e americani si dividono sul numero di morti ammazzati da al Qaeda, ma concordano sull’insufficiente fornitura elettrica garantita ai cittadini di Baghdad (solo cinque ore il giorno) evidenziata dalla prima puntata di un’interessante inchiesta del New York Times sul lascito americano in Iraq.
Di certo c’è che in Iraq resteranno 50mila soldati, salvo intoppi fino alla fine dell’anno, a continuare la missione che da Operation Iraqi Freedom si trasforma in Operation New Dawn, operazione nuova alba. «Il nostro impegno in Iraq muta da uno sforzo militare guidato dalle nostre truppe a uno sforzo civile guidato dai nostri diplomatici», ha detto Obama in un discorso pronunciato ieri mattina ad Atlanta davanti a una platea di disabili e reduci di guerra.
La "guerra stupida" cui Obama si era opposto quando era ancora un senatore statale dell’Illinois, sette anni dopo finisce "in modo responsabile" e, soprattutto, "nei tempi previsti" non solo dalle promesse elettorali del candidato Obama,ma anche dell’accordobilaterale firmato da George W. Bush e dal premier iracheno Nouri al- Maliki alla fine del secondo mandato del presidente repubblicano. Obama, segnala Peter Baker del New York Times, non ha fatto alcun riferimento al cambio di strategia politico-militare in Iraq del 2007, deciso da Bush ed eseguito dal generale David Petraeus contro il parere dell’establishment di politica estera di Washington. Obama era contrario al "surge" militare, ma come ha riconosciuto lui stesso durante la campagna elettorale è stata quella svolta a consentire la fine della guerra dichiarata ieri mattina e festeggiata come il primo grande successo di politica estera della sua presidenza.
Missione compiuta, dunque. Senza i toni enfatici usati da Bush nel discorso del primo maggio 2003 sulla portaerei Uss Abraham Lincoln, ma il succo è lo stesso. Un risultato non di poco conto, qualcosa da poter rivendicare in vista delle elezioni di metà mandato di novembre. Ma anche una grande operazione mediatica per attenuare l’ansia della sua parte politica sull’altra guerra, quella "necessaria" in Afghanistan.
Da qui alla fine di agosto, Obama e i suoi continueranno il "victory lap", il giro di campo per festeggiare la vittoria irachena con discorsi, bagni di folla tra i soldati, visite a Baghdad. «I sacrifici americani in Iraq non sono finiti », ha detto Obama, ma la violenza si è ridotta è ai minimi livelli di sempre. «Entro la fine del mese - ha detto - avremo portato a casa 90mila soldati». Il punto è che i soldati americani non sono tornati a casa. Sono stati spostati in Afghanistan, dove Obama sta cercando d’impiegare una strategia politica e militare simile a quella ideata da Bush e Petraeus in Iraq e, per questo, l’ha affidata ancora una volta a Petraeus.
Quando Obama è entrato alla Casa Bianca, il numero delle truppe americane impegnate in Iraq e Afghanistan era di 177mila. Alla fine del mese saranno 146mila. Erano 144mila in Iraq e 33mila in Afghanistan. A settembre saranno 50mila in Iraq, dislocati in 94 basi che resteranno a disposizione degli americani, e diventeranno 96mila in Afghanistan (più quelle delle coalizione internazionale). In Afghanistan, insomma, Obama ha triplicato il numero dei soldati.
Senza contare l’escalation dei bombardamenti con gli aerei senza pilota sui villaggi pakistani dove cercano rifugio i capi talebani e di al-Qaeda.
La mossa obamiana di concentrare l’attenzione sull’Iraq nasce dall’esigenza di mitigare frustrazione e malcontento per la situazione in Afghanistan, accentuati dalla pubblicazione dei diari di guerra su Wikileaks. Gli americani, stando ai sondaggi, non sono soddisfatti. La guerra in Afghanistan è la più lunga della storia degli Stati Uniti. Il numero di caduti a luglio è il più alto da nove anni. Il Congresso ha comunque approvato una richiesta del Pentagono di 59 miliardi di dollari, più di metà dei quali servono a coprire le spese correnti da qui alla fine dell’anno in Afghanistan e Iraq. L’appoggio dei repubblicani è stato decisivo, perché alla Camera i democratici si sono divisi: in 102 hanno votato contro il finanziamento extra budget. Il consenso politico continua a esserci, anche se non promettono bene le dichiarazioni pessimiste del presidente del partito repubblicano Michael Steele, liquidate come "gaffe", e il crescente scetticismo dell’ala sinistra dei democratici.
Esperti militari come Michael O’Hanlon sul Wall Street Journal e la copertina scioccante di Time che mostra una ragazzina con la faccia mutilata dai talebani invitano alla pazienza, ad avere fiducia, a non fuggire da Kabul perché le conseguenze sarebbero terribili. I grandi editorialisti e gli analisti di politica estera hanno cominciato a innestare la marcia indietro, interpretando il sentimento del paese dopo le rivelazioni non rivelatorie di Wikileaks. Sulla New York Review of Books, la bibbia dell’intellighenzia liberal americana, Gary Wills ha scritto che Obama si è imbarcato nella più stupida delle situazioni e sarà per sempre ricordato come il presidente del disastro in Afghanistan.
Il presidente del Council on Foreign relations, Richard Haas, ha scritto su Newsweek che è arrivato il momento di riconoscere che in Afghanistan le cose stanno andando male e di ritirarsi. Sul Financial Times, l’ex consigliere di Bush Robert Blackwill ha suggerito di dividere l’Afghanistan, lasciando il sud ai talebani. Frank Rich e Thomas Friedman, le principali firme liberal del New York Times, domenica hanno spiegato che ha poco senso rimanere in Afghanistan, quando tutti sanno che gli attacchi dell’11 settembre sono stati pianificati e finanziati da Arabia Saudita e Pakistan. L’argomento è lo stesso usato ai tempi di Bush sull’Iraq e suona come una versione geopolitica del benaltrismo del dibattito italiano. Ci vuole ben altro. Si diceva che Bush aveva sbagliato ad invadere l’Iraq, perché al Qaeda era in Afghanistan. Ora che Obama chiude con un relativo successo la partita irachena per concentrarsi sull’Afghanistan, gli si dice che i terroristi non sono lì, ma in Pakistan, Arabia Saudita e Yemen.
Il vicepresidente Joe Biden sostiene la tesi di limitare le operazioni militari alle attività antiterrorismo, senza preoccuparsi di sconfiggere i talebani o di costruire una democrazia jeffersoniana a Kabul. Una tesi condivisa da Jack Devine, ex capo delle operazioni della Cia che in un articolo sul Wall Street Journal ha invitato la Casa Bianca ad affidare le operazioni afghane ai servizi segreti e a ritirare le truppe.
La tensione all’interno del mondo obamiano è evidente. Uno dei temi è la data del rientro delle truppe da Kabul. La presidente della Camera, Nancy Pelosi, si aspetta che a luglio del 2011 cominci il disimpegno. Il capo del Pentagono, Robert Gates, ha spiegato che rientrerà solo un limitatissimo numero di soldati, sempre che le condizioni sul campo lo permettano.
Ciò che conta è la posizione del comandante in capo, in attesa della revisione strategica di dicembre: «Ora abbiamo una strategia che può funzionare - ha detto Obama - abbiamo uno dei migliori generali sul campo. Andremo avanti col processo di addestramento degli afghani in modo che possano essere in grado di garantirsi la sicurezza. A metà del prossimo anno cominceremo ad assottigliare le nostre truppe e a dare maggiore responsabilità agli afghani. Se non pensassi che completare la missione in Afghanistan fosse importante per la nostra sicurezza nazionale, ritirerei i soldati oggi stesso».