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 2010  agosto 03 Martedì calendario

Gelosia rosso sangue - Si è trascinato qui, su questi sette gradini, con i suoi tredici anni, l’addome squarciato, gli occhi sbigottiti

Gelosia rosso sangue - Si è trascinato qui, su questi sette gradini, con i suoi tredici anni, l’addome squarciato, gli occhi sbigottiti. Adesso sugli ultimi passi di Matteo c’è una scia di sangue, e poi una chiazza rossa, e cinque mazzi di fiori bianchi. No, non era in un videogame, quel colpo di coltello sferrato all’improvviso, non era nella sua amata playstation, quella che aveva chiesto al padre per la promozione in terza media. Era vita vera, e dentro c’era lui. Il vicolo Pierluigi da Palestrina, la piazza De Gasperi che domenica sera erano pieni di voci, rombi di moto e risate adesso sono silenziosi, il paese è vuoto, e i pochi che passano non hanno voglia di parlare. «Io non c’ero in quel momento - racconta Marco, cappellino da baseball sugli occhi - l’ho saputo solo di mattina. Mi hanno detto che è successo per amore, per colpa di una ragazza». Due parole buttate lì quasi involontariamente - amore, colpa - sulle quali gli psicologi scriverebbero tomi e che qui, nella provincia di Brancati, della Cavalleria rusticana, suonano antiche, eterne, immutabili. Laura passa in fretta: «Era un ragazzo troppo buono - racconta - ho saputo quello che era successo perché alle due di notte mi ha svegliato mio fratello raccontandomi che aveva tentato di soccorrere Matteo». A quell’ora i telefoni di mezza Bronte, 20 mila abitanti abbarbicati alle pendici dell’Etna, si sono messi a squillare. «Mi ha chiamato mio figlio da Londra - racconta il presidente della Provincia, Giuseppe Castiglione, che vive qui - mi ha detto che avevano accoltellato il suo compagno di classe, il figlio del carrozziere. Non ci può ancora credere, è sotto choc. Abbiamo tentato di tutto per aggregare, per promuovere attività estive, ma è difficilissimo, c’è una spaventosa crisi di valori». Un ragazzino tranquillo, Matteo, racconta tutto il paese, con una propensione a fare da paciere, a «mettersi in mezzo», come si dice qui. Chi ha tirato fuori il coltello, invece, per tutti è «il figlio di quello lì, il figlio del pregiudicato». «Lo liquidano così per allontanare quello che è successo, ma in realtà Bronte ha un problema collettivo che è profondo», dice Salvatore Capizzi, medico del dipartimento di Salute mentale dell’azienda sanitaria, unico psicoterapeuta della zona, da ventidue anni in trincea. «Qui i casi di schizofrenia paranoide - racconta - sono più di quelli dei tre Comuni vicini messi insieme, qui non si produce una goccia di vino ma c’è un problema di alcolismo maggiore che nella vicina Randazzo che è piena di produttori, qui ai corsi prematrimoniali parlo della gelosia patologica e un sacco di giovani vengono a dirmi di essersi riconosciuti in quei sentimenti. Sono ossessionati, non vogliono che la fidanzata esca, vada in gita con i compagni di scuola, faccia le cose più banali. Quelli che si rivolgono al nostro servizio sono una minoranza, a convincerli sono le ragazze che non ce la fanno più. Ma molti vivono un disagio che non sanno esprimere, e così diventa più esplosivo. Per orgoglio, per diffidenza». Il medico mostra una palazzina vicina alla piazza del delitto, l’angolo corazzato da pietra lavica. «Vede come sono fatte le case? I brontesi si sentono sempre perseguitati, sempre attaccati da qualcuno». E’ lui a seguire i genitori di Salvatore Costanzo, il diciassettenne ucciso per sbaglio, proprio qui, il 12 dicembre dell’anno scorso. Aveva chiesto un passaggio dopo una festa, e si è trovato in macchina con un picciotto a cui altri volevano dare una lezione a suon di pallottole. Un regolamento di conti in cui non c’entrava niente. L’inseguimento, gli spari, e i cinque colpi si sono conficcati nella sua testa, quella sbagliata. «Bronte non ha ancora elaborato il trauma collettivo dei fatti del 1860, la sconfitta, l’ingiustizia subita, e insieme il senso di colpa», taglia corto Capizzi. La storia è quella della rivolta dei contadini che, armi alla mano, occuparono le terre dei latifondisti all’indomani dello sbarco di Garibaldi, credendo che fosse arrivato il tempo del riscatto. Fu Nino Bixio in persona a fucilarli, sedando i fremiti di un ingestibile sovvertimento sociale e obbedendo agli alleati inglesi che qui hanno fatto sempre da padroni. Maria, smalto fucsia, jeans a vita bassa, 15 anni, sa a malapena di che cosa stiamo parlando. «La ducea di Nelson? Ma che cos’è, un’interrogazione?», dice con una risata imbarazzata. Già, ancor prima di Garibaldi e della rivolta abortita, era arrivato l’ammiraglio inglese - l’eroe di Trafalgar - a dissotterrare nel 1778 un armamentario di angherie da Medioevo, dopo avere ottenuto da re Ferdinando III di Borbone l’intero territorio. E pazienza se i brontesi erano riusciti a riscattare il paese soltanto quattro anni prima, peccato se nel secolo precedente avessero pagato 22 mila scudi, una cifra esorbitante, per sfuggire all’imperio sulla vita e sulla morte che Nelson impose nuovamente. Possono la frustrazione, la rabbia, la voglia di rivalsa tramandarsi per secoli, di generazione in generazione? Di sicuro il pistacchio, l’oro del paese, verde e dolce come nessun concorrente asiatico sa essere - declinato ovunque in creme, dolci, pesto - non è riuscito a risolvere tutto. A dare speranza, futuro, identità. Ci prova, alle sei e mezza del pomeriggio, don Vincenzo Bonanno, 42 anni, da due parroco alla Madonna del Riparo, quella dove Matteo si stava preparando per la cresima. «Un ragazzino tranquillo, un figlio del popolo come qui ce ne sono tanti», racconta. Manda un sms agli amici del ragazzo, li invita a raggiungerlo in chiesa. Arrivano in venti. Piangono, si abbracciano, gli chiedono perché. «L’assassino è pure lui una vittima - dice loro il sacerdote - e la morte di Matteo può diventare la leva per innescare un cambiamento, per imboccare la strada della pace, della riconciliazione, della giustizia». Due ore dopo sono tutti ancora in parrocchia a preparare striscioni per Matteo. Niente muretti, stasera, niente chiacchiere. Sono qui, ai piedi del Crocifisso, a dirgli che no, non lo dimenticheranno.