MAURIZIO MOLINARI, La Stampa 2/8/2010, pagina 22, 2 agosto 2010
Eataly prende per la gola anche gli americani - Il 31 agosto Eataly apre i battenti al numero 200 della Fifth Avenue, portando a Manhattan una nuova dimensione del cibo italiano
Eataly prende per la gola anche gli americani - Il 31 agosto Eataly apre i battenti al numero 200 della Fifth Avenue, portando a Manhattan una nuova dimensione del cibo italiano. In uno spazio di 7 mila metri quadrati sono 8 ristoranti monotematici, immersi in mercati di carne, pesce, formaggi, pasta e verdure, 20 chef e 400 dipendenti, ad offrire ai newyorkesi la possibilità di consumare in 600 posti a sedere gli stessi prodotti doc che sono in vendita su dozzine di banchi e scaffali. La sovrapposizione nello stesso spazio della realtà del mercato tipico delle piazze italiane con l’alta cucina nasce dall’intesa fra Oscar Farinetti, creatore di Eataly, Lidia Bastianich, la regina indiscussa del cibo italiano in America, lo chef Mario Batali, titolare di alcuni dei ristoranti più gettonati della Grande Mela, e una coppia di giovani ex manager di Wall Street, Alex e Adam Saper, che hanno scelto di voltare le spalle all’alta finanza dopo aver visitato Eataly a Torino. Joe Bastianich, figlio di Lidia nonché socio di Farinetti assieme ai Saper e Batali, è il titolare della ristorazione e riassume così la scommessa che li accomuna: «Offrire nello stesso spazio tanto il tavolo che prodotto, puntando a innovare la cultura del cibo dei newyorkesi, lasciandosi alle spalle la dipendenza dalle pietanze preparate». Se gli immigrati italiani di fine Ottocento portarono in America una cucina che fu obbligata a scendere a compromessi con i prodotti locali e dagli anni Ottanta New York ha progressivamente riscoperto i sapori originali del «made in Italy», adesso Eataly conta di farle compiere un balzo in avanti, catapultando il meglio dei prodotti della tradizione lì dove la Fifth Avenue si incrocia con Broadway Avenue. Basta varcare l’entrata, proprio davanti al Flatiron Building, per accorgersi di cosa si tratta. Sulla sinistra il bar del caffè Lavazza, subito dopo l’agrogelateria, poi i dolci e la pasticceria fino ad arrivare nella piazza sulla quale la mozzarella viene fatta a mano, da dove si può scegliere se procedere verso la zona della carne, del pesce, della pasta o dei prodotti vegetali. E’ un percorso non solo nel cibo, ma nell’identità e nella storia italiana, accompagnato da 320 cartelloni sulla filosofia di Eataly - che molto deve allo Slow Food di Carlo Petrini - a partire dal fatto che nessuno ha ragione a priori, nè il cliente nè il venditore. Ad avvalorare l’impressione di trovarsi nel Belpaese vi sono gli angoli dove Unicredit consente di ritirare dollari, adoperando bancomat italiani, dove il megaschermo e gli iPad de «La Stampa» permettono di essere costantemente aggiornati su cosa avviene nel mondo, dove Alpitour offre alla clientela la possibilità di andare a visitare le aree di origine dei prodotti in vendita e dove Lidia Bastianich tiene le stesse lezioni di cucina che sulle tv via cavo americane sommano 50 milioni di telespettatori. «Dopo Torino e Tokyo apriamo a New York, perché questa è la capitale del mondo - spiega Oscar Farinetti, impegnato a seguire gli ultimi dettagli del megaprogetto - con 8 milioni di abitanti, dove ogni anno vengono 45 milioni di turisti dei quasi 500 mila italiani». L’intenzione è «offrire ai newyorkesi un luogo dove incontrare il meglio della qualità dei cibi nostrani e agli italiani un posto dove sentirsi a casa anche al di là dell’Atlantico». Il tutto condito da un «ristorante della birra» con una vista mozzafiato sui grattacieli di Midtown, 1000 metri quadrati di cucine sotterranee e un negozio-cantina dei vini, a fianco dell’entrata sulla 23° Strada, di dimensioni sorprendenti anche in una metropoli abituata a confezionare record. Alla base di tutto c’è l’approccio al cibo di Farinetti, 56 anni, che si definisce un «mercante del XXI secolo», basato sui «contrasti apparenti fra l’informalità dell’ambiente e l’autorevolezza dei prodotti, fra l’orgoglio della tradizione e l’ironia nel presentarsi, fra la furbizia di un’azienda di indubbio successo economico e l’onestà nei confronti del cliente». Farinetti riesce anche ad essere più newyorkese dei newyorkesi: uno dei cartelli spiega infatti che in qualsiasi prodotto c’è il «50% in meno di sale» con una riduzione doppia rispetto a quanto richiesto dal sindaco Michael Bloomberg ai ristoranti. Ogni mattina i primi a fare la spesa saranno gli chef per acquistare sui banconi i prodotti destinati ad essere cucinati per gli avventori, dando vita ad ciclo di acquisti-consumi-acquisti destinato a continuare fino a tarda serata nei locali che l’architetto Carlo Pignone - lo stesso che ha firmato Eataly a Torino - ha realizzato adattando stucchi e marmi neoclassici dell’originale «Toys Building» della Grande Mela alle necessità della città del gusto «made in Italy». Pochi isolati più a Sud, Farinetti ha il suo ufficio in un loft, dove con Joe Bastianich e i fratelli Saper è proiettato verso un’inaugurazione che vedrà i sindaci di New York e Torino affiancati da quelli di Alba, Bra, Barolo e Novello - luogo natale del fondatore di Eataly - per rappresentare la fusione fra il mercato globale e le singole realtà locali che lo rendono possibile. Ed è da queste stanze che Farinetti coordina anche la rete di operazioni «top secret» che hanno reso possibile lo sbarco sulla Fifth Avenue: a cominciare dalle fattorie del Montana dove sei anni fa fece arrivare lo sperma della razza bovina piemontese al fine di produrla in loco attraverso incroci sempre più pregiati, ovviando all’impossibilità di importare negli Stati Uniti carne straniera.