Lietta Tornabuoni, La Stampa 1/8/2010, pagina 32, 1 agosto 2010
Suso, l’anima felice del cinema italiano - Quand’era piccola, una bambinetta liscia e succosa come un frutto, in casa la chiamavamo Susino o Susicchio; più tardi Suso divenne il nome ufficiale e la firma professionale, soltanto Luchino Visconti si ostinò a chiamarla Susanna che c’entrava nulla, perché all’anagrafe lei era Giovanna
Suso, l’anima felice del cinema italiano - Quand’era piccola, una bambinetta liscia e succosa come un frutto, in casa la chiamavamo Susino o Susicchio; più tardi Suso divenne il nome ufficiale e la firma professionale, soltanto Luchino Visconti si ostinò a chiamarla Susanna che c’entrava nulla, perché all’anagrafe lei era Giovanna. A 96 anni se n’è andata a Roma Suso Cecchi d’Amico, sceneggiatrice, la donna più importante del cinema italiano nel suo tempo migliore, autrice raffinata e insieme popolare, pragmatica e poetica. Era malata e infinitamente stanca. Da tempo usava la poltrona a rotelle, non lavorava più, rifiutava il cibo, si distaccava dalla realtà. Ma nessuna ha avuto un’esistenza, una carriera come la sua: collaboratrice di film anche straordinari (Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, Bellissima e quasi tutti i film di Visconti che lei chiamava «Conte mio», Le amiche di Antonioni, Salvatore Giuliano di Francesco Rosi), amica degli intellettuali, madre e ospite meravigliosa, carattere forte, spirito e simpatia irresistibili. Cresciuta in una famiglia della più alta cultura italiana del Novecento, figlia dello scrittore, critico letterario, direttore della società Cines Emilio Cecchi e della pittrice Leonetta Pieraccini, allieva del liceo francese Chateaubriand di Roma e per due stagioni studentessa a Cambridge, il primo scontro con i genitori fu a causa del suo rifiuto di frequentare l’Università. Voleva rendersi indipendente, lavorare, e si impiegò infatti al ministero Commercio con l’estero per molti anni, sino al 1940. Nel 1938 sposò Lele (Fedele) d’Amico, musicologo, critico musicale, figlio del critico teatrale, ideatore e direttore dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico: il matrimonio stabiliva il legame tra due grandi famiglie, quelle che nel titolo del bellissimo libro di Tullio Kezich e Alessandra Levantesi sono definite «Una dinastia italiana» (Garzanti) e sulle quali fornisce col maggior rigore tutte le informazioni e le analisi. Dall’unione nacquero tre figli che seguono e prolungano le tradizioni di famiglia: Silvia, produttrice di film, amatissima da Roberto Rossellini; Masolino (Tommaso), docente universitario, scrittore, critico teatrale; Caterina, dirigente della Scuola di Cinema e adesso di Rai Cinema. Si racconta appunto in Una dinastia italiana che fu il regista Renato Castellani nel 1942 ad avere per primo l’ispirazione di utilizzare Suso nel lavoro di sceneggiatura per un film mai realizzato, Avatar; e poi per Mio figlio professore, storia del bidello Aldo Fabrizi che riesce a far diventare professore il figlio Giorgio De Lullo, per sentirsene alla fine snobbato. Fabrizi seguiva in quel momento una severa dieta dimagrante e stava sempre sul letto in albergo perché non gli venisse appetito; accanto al letto aveva un giornale su cui ogni tanto sputava mentre Suso gli leggeva la parte scritta per lui. Coinvolse la sceneggiatrice pure negli altri suoi film Vivere in pace e Il delitto di Giovanni Episcopo; poi fu il regista Zampa a reclutarla per L’onorevole Angelina (in quella occasione nacque l’amicizia tra Suso e Anna Magnani, grande quando quella con Mario Monicelli). Seguì Ladri di biciclette: un grande balzo in avanti era compiuto con tutti gli onori. Il rapporto più devoto e intenso, fatto di ammirazione, di rispetto e di fiducia reciproca, era quello con Luchino Visconti, durato oltre trent’anni, divenuto nel tempo essenziale: Suso assisteva il regista nelle più varie circostanze, non soltanto nel lavoro lo aiutava, lo frenava e (cautamente) lo criticava. Nelle divisioni d’epoca essere dalla parte di Visconti voleva dire non stare con Fellini: tra Suso e Fellini il legame si ristabilì soltanto al funerale del maestro Nino Rota, quando lei lo pregò di essere testimone dell’esistenza di una figlia americana, fino ad allora segreta, del musicista. Suso Cecchi d’Amico non mostrò mai ambizioni di narratrice o di regista: ma sapeva tenere saldamente la struttura di un film e le esigenze cinematografiche. Le riunioni con colleghi, produttori e registi nella sua casa romana di via Paisiello avvenivano in un salotto a forma di «L», si racconta in Una dinastia italiana: «La macchina per scrivere era piazzata sul tavolino in mezzo ai divani sui quali sedevano comodamente sprofondati i cineasti, in un’atmosfera quasi sempre simpatica e cameratesca. Alcune difficoltà scaturirono dal fatto che nei primi Cinquanta, quando Suso stava per toccare la quarantina, non mancò di suscitare qualche innamoramento tra i colleghi, tutti uomini, con cui lavorava». Ennio Flaiano, a esempio, o Antonio Pietrangeli, ma lei obiettava: «Non sono mai stata da amori». Il fascino di questa donna d’eccezione stava anche nella praticità, nel buon senso unito all’altruismo, nella capacità organizzativa: è in parte suo il merito della faticosa realizzazione de Le notti bianche di Luchino Visconti, del restauro del Ludwig visconteo, della possibilità per il regista di girare nel 1976, malato, il suo ultimo film L’innocente. Con Visconti come con tutti gli amici Suso Cecchi d’Amico è stata d’una generosità sollecita e provvidenziale: a richiesta, un consiglio, il suggerimento di un medico o di un fornitore preziosi, la guida per una citazione letteraria, un giudizio di comportamento, un indirizzo non mancavano mai. Erano sempre giusti.