Bruno Ventavoli, La Stampa 1/8/2010, pagina 31, 1 agosto 2010
Anni Trenta, a qualcuno piaceva Budapest - Nel 1932 un pool di editori inglesi bandì un concorso letterario internazionale
Anni Trenta, a qualcuno piaceva Budapest - Nel 1932 un pool di editori inglesi bandì un concorso letterario internazionale. Arrivarono centinaia di dattiloscritti, a sorpresa vinse un giovane sconosciuto ungherese, Ferenc Körmendi, con un malloppo da 500 pagine, Avventura a Budapest, che ora viene ripubblicato da Bompiani (con postfazione e traduzione rivista con eleganza da Giorgio Pressburger) sulla scia del successo del Márai adelphiano. I tempi, in fondo, sono gli stessi delle braci che ardevano nella Mitteleuropa schiaffeggiata dalla storia. Diversa invece è la coralità dell’affresco. Körmendi mette in scena una torma di personaggi con sogni, ambizioni e frustrazioni dettate dai duri tempi in cui vivono e dalla dura situazione che l’Ungheria ha subìto dopo la guerra. Un gruppo di ex compagni liceali scopre che un amico, il più sciapo, è diventato ricchissimo dopo essere migrato in Sudafrica e aver sposato una facoltosa vedova (originaria di Kassa, la stessa città di Márai, ormai assegnata alla Cecoslovacchia dal trattato di pace di Trianon). Lo invitano a tornare a Budapest per ingannarlo, forse sfruttarlo. L’incontro avviene, ma tra il nababbesco Kádár e lo spiantato Kelemen, il più tormentato del gruppo, ci si mette di mezzo l’amore, o quel che dovrebbe essere amore, e «tutto va a ramengo», verso un tragico destino. Il romanzo piacque molto. Fu tradotto in 22 lingue e Körmendi divenne famoso. Nel ’39, troppo libero per l’Ungheria horthista, migrò in Inghilterra e lavorò per la propaganda antifascista della Bbc. Tornò in Ungheria nel ’48, pensando di fregiarsi di questa militanza progressista, invece fu considerato troppo borghese dai comunisti che prendevano il potere, e se ne tornò in esilio in America, morendo dimenticato laggiù. I cultori di Márai, che assottiglia le trame fino a semplici bisbigli interiori, forse si troveranno spiazzati di fronte all’ambiziosa avventura di Körmendi che mescola affresco sociale e flussi di coscienza, ma troveranno la stessa Budapest degli Anni 30, diventata una miracolosa fucina di narrazione. Gli «ungheresi» andavano di moda, erano marchio, come i gialli scandinavi o i thriller danbrowneschi. Körmendi, Molnár, Herczeg, Zilahy avevano ambizioni alte, volevano ragguagliare su città affamate (uno dei romanzi di Molnár si intitolava appunto la Città affamata) di ricchezze, ma anche di ideali, perché la civiltà europea malata di cinismo e apatia stavano diventando preda di dittature e di nuove guerre. Piacevano perché raccontavano la vita, l’amore infedele, gli uomini senza qualità di una generazione che molto si era attesa dal Novecento (un altro dei romanzi di Körmendi si intitola sardonicamente La generazione felice), le borgate povere e il grand hotel. C’erano anche i comunisti, esotici con le loro spicce crudeltà rivoluzionarie (persino uno come Dekobra li usava per creare frisson). Altri, come Vaszáry, Török, Sándor Hunyady, Bús-Fekete, seguivano l’evasione più leggera, avventure galanti, aristocratici eccentrici, donne di buone forme, divorzi (in Ungheria si poteva divorziare) che davano un alito di paprika alle avventure. I telefoni bianchi sono figli di Budapest, non solo perché c’era sempre un magiaro da operetta che bucava lo schermo, ma perché erano gli stessi ungheresi emigrati per scommessa di fama o per sfuggire a fascismo e antisemitismo a lavorare nell’industria cinematografica. Un classico di De Sica come Teresa Venerdì era l’esatto remake di Pénték Rézi di Vajda. Alcuni venivano in Italia, a inventare commedie che alleggerivano il cinema fascista, o scrivere dialoghi per Totò. Korda in Inghilterra creò la moderna industria di celluloide e fu fatto sir. C’era una buona fetta di magiarità anche a Hollywood. Adolph Zukor fondò la Paramount, William Fox la Fox, Kertész (poi americanizzato in Curtiz) girò Casablanca, Vidor Gilda, Lengyel Menhyért scrisse Ninotchka, Miklós Rózsa e József Kozma musicavano film, Bela Lugosi faceva il vampiro. Erano diversi tra loro, gli «ungheresi», ma tutti nati negli stessi caffè, tra i palazzi liberty, nella selva di giornali, nei cabaret, sulle rive del Danubio dove c’era il parlamento più grande del mondo per un Paese ridotto a 10 milioni di abitanti da uno spietato trattato di pace. Avevano una patria stretta, per confini e regime politico. Una lingua che nessuno capiva, venuta da qualche steppa asiatica o da Marte, ma l’unica al mondo che per dire ti amo usa una sola parola. Forse per tutto questo crearono format narrativi immensi, che sapevano parlare al pubblico globale del mondo, che ancora globalizzato non era.