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 2010  agosto 01 Domenica calendario

L’anima del Po nascosta tra le vongole - Le dimensioni sono quelle di un nocciolo di albicocca. Gradazioni di colore scuro sfumano nel giallo intenso e nel rosa chiaro, mentre millimetriche linee di crescita disegnano un ventaglio che si apre fino alla cerniera tra le due valve

L’anima del Po nascosta tra le vongole - Le dimensioni sono quelle di un nocciolo di albicocca. Gradazioni di colore scuro sfumano nel giallo intenso e nel rosa chiaro, mentre millimetriche linee di crescita disegnano un ventaglio che si apre fino alla cerniera tra le due valve. Il guscio è costruito da carbonato di calcio, cioè calcare, materia plasmabile dall’acqua, modellabile dagli elementi, che in futuro si organizzerà innalzandosi in verticale, come sulle pareti delle Alpi Orientali, o in orizzontale, come sulle distese aride del Carso. Albeggia, e proprio nel punto in cui il Po entra nel mare dopo i 652 chilometri del suo viaggio, anche questa mattina la nebbia avvolge il labirinto di fiordi, isole, radure liquide che costituiscono la parte terminale del Delta. L’unico rumore è quello del fuoribordo che spinge la «batana», la barca, sull’acqua resa lucida dalla bonaccia. E laggiù, sul fondo sabbioso della laguna, un mondo intanto obbedisce a un ordine, e si risveglia: è il tappeto di vongole che inizia a respirare. Le conchiglie si aprono e attraverso i due piccoli sifoni, quello inalante e quello esalante, filtrano acqua (40 litri in 24 ore). È acqua salmastra, non più e non già, ma tra fiume e mare. Parte di questo liquido bruno-verde ha attraversato una pianura densamente popolata, un bacino di 16 milioni di persone (cioè più degli abitanti di Svezia e Norvegia messi insieme, ma concentrati in una area 12 volte inferiore), e si è impregnato di sali di azoto e fosforo, residui dell’agricoltura intensiva, risaie, mais, frumento. Buona parte del Nord Italia lascia qui una sua traccia: cibo per le vongole. «Vieni qui! Cosa fai lì in piedi? Aspetti di scivolare in acqua?». Prisca mi fa posto accanto a lei a prua, e dopo una sbirciata d’intesa a suo marito Stefano seduto a poppa, ritorna a puntare gli occhi bruni al largo, dove spuntano le briccole a indicare l’orto di mare. L’acqua piano piano lo inghiotte. Prisca e suo marito, come altri 1500 deltini della Sacca di Scardovari, poggiano l’economia famigliare sulla vongola. La vongola è l’oro di questa mondo marginale storicamente depresso. Qui in laguna ne vengono prodotte circa 80 mila quintali l’anno e il prezzo dai due euro e 60 al chilo del 2009 è salito a circa tre. Ma loro, come ogni famiglia, non possono pescarne a piacere, altrimenti l’intera colonia si estinguerebbe in pochi mesi. Possono solo beneficiare di una quantità corrispondente al numero di «quote» possedute, assegnate dal Consorzio attraverso parametri famigliari (c’è una vigilanza privata che controlla). Oggi Prisca e Mario ne raccoglieranno quattro sacchetti, non di più. Quanto basterà per farsi la giornata. C’è una calma pervasa di tensione quando Mario spegne il motore e la barca, per inerzia, avanza lenta nel punto stabilito. Sarà veloce il raccolto? Tutt’intorno, nella luce ancora tenue, decine e decine di barche come questa punteggiano lo specchio d’acqua. Sono ombre mute intente una strana cerimonia propiziatoria, mentre si preparano al lavoro. Prisca e Mario non parlano, si muovono veloci, con gli stessi gesti ripetuti da anni, ogni mattina, nella bruma gelida invernale o nell’alba accogliente d’agosto. Stefano si siede su una fiancata, porta i piedi oltre il bordo e, protetto da una corazza di gomma impermeabile unita agli stivali, si lascia scivolare in mare. Entra lentamente. L’acqua piano piano lo inghiotte. Finché i piedi si posano nel buio del fondale e il filo di superficie gli arriva al ventre. E iniziano le operazioni. Prisca passa al marito il grosso rastrello d’acciaio che grazie a una speciale pompa permetterà la raccolta. Poi accende il motore del setaccio meccanico e si mette in attesa del raccolto. «Io sono contadina del mare. Questa non è pesca! Vedi, sembra che Stefano stia cogliendo della verdura, mica pescando… O sbaglio?» urla Prisca tentando di sovrastare il fremito metallico del setaccio che lei stessa alimenta con manciate di raccolto appena posato sulla coperta. Ci sono granchi, conchiglie più grosse, ostriche che saltellano sulle barre del setaccio automatico. Ma solo le vongole di una certa taglia cascano al sicuro nel secchio. La metà dei vongolari sono donne: «È acquacoltura. E noi lavoriamo come contadini. Anzi, da una paio d’anni non siamo neppure inquadrati col fisco come pescatori, ma come agricoltori. E qualche agevolazione, diciamolo, è arrivata. Risulta che abbiamo in gestione un pezzettino di terreno, o di specchio di mare, chiamalo come vuoi». I primi raggi di sole radenti alla superficie lucida colpiscono Prisca. Ha un bel viso aperto, cordiale, le labbra carnose sono strette nella concentrazione del lavoro. Tiene la fronte corrucciata. E le sue mani si muovono rapidissime: gli occhi puntano gli scarti da separare e le dita sottili lo afferrano gettandolo rapide fuoribordo. «Cinque anni fa facevo la commessa in una boutique di abiti da sposa: avevo un bello stipendio, sai? Ma ho lasciato perdere…». dice alzando le spalle, «preferisco starmene qua in mezzo alla natura. Anche se per una donna è duro. Ma almeno qui la vita è più vera. Mio figlio di 16 anni ora sta dormendo a casa. Poi quando torno mungiamo insieme le capre. Ne ho 25. Vedi, non sono solo contadina, ma anche allevatrice», ride. Prisca mi spiega che lei, come donna, non è affatto un’eccezione qui in laguna: anche se andar per mare è per tradizione un lavoro prettamente maschile, oggi quasi la metà dei vongolari sono donne: anche perché l’occupazione femminile è entrata in grave crisi dopo la chiusura del settore tessile del Delta. «Siamo in tante, siamo in tante» dice alzando le spalle. Poi scruta il cesto di raccolta delle vongole e, con occhio clinico, azzarda una stima sulla quantità radunata. Sì, le quote sono state raggiunte. Un’ora e mezza di lavoro ed è finita la raccolta. «Oggi è stato veloce» dice allegra. Prisca spegne il motore del setaccio: «Stefano! Vieni su, si va!». Una grande bocca invitante. Le barchette prendono la via del ritorno quasi all’unisono; sono decine e decine. Tra poco il raccolto verrà prelevato a terra dagli uomini del Consorzio e portato allo stabilimento dove verrà lavato e disinfettato per ore, e spedito ai mercati italiani e stranieri, fino in Francia, in Spagna. Oggi, le famiglie della laguna di Scardovari escono da due anni di magra pesante, il mercato è crollato. Questo non è più l’Eldorado dei primi tempi, quando si iniziò in grande stile dopo gli esperimenti del 1989 con l’arrivo della vongola Filippina, più resistente e generosa della Verace. La leggenda vuole che si presentò un biologo con un liquido bianco contenuto in un bicchierino di carta: poche gocce versate nel salmastro della laguna e l’avventura delle vongole iniziò a prendere il largo. Allora si era in pochi, si guadagnavano milioni di lire a manciate. Ora Prisca e suo marito portano a casa un paio di migliaia di euro in due. «Cosa vuoi, io ho 35 anni» dice nella mattina inondata di sole mentre la barca torna lentamente a riva. «Sì, il lavoro è duro, ma c’è poesia, qui. Quella sì, guardati intorno. Guarda dove siamo, altro che stare in boutique!». Scivoliamo sul filo dell’acqua con la barca ricca del bottino di conchiglie. Davanti si avvicina l’ingresso del fiume, grande bocca invitante circondata dalle muraglie compatte dei canneti dove qua e là affiorano rami trasportati dalla corrente e ora calcificati come ossa al sole. Chissà da dove arrivano? Mi accorgo di essere entrato. E da qui, dove la memoria del Grande Fiume si disperde nel mare, inizia il nostro viaggio verso l’origine. * Marco Albino Ferrari ha fondato e dirige la rivista «Meridiani Montagne». Tra i suoi libri: Frêney 1961 (Vivalda, 1996 e Corbaccio, 2009), Il vuoto alle spalle, storia di Ettore Castiglioni (Corbaccio 1999), Terraferma (Corbaccio, 2002), In viaggio sulle Alpi (Einaudi, 2009), La sposa dell’aria (Feltrinelli, 2010). Per «La Stampa», nel 2006, ha scritto il racconto in 12 puntate del viaggio in bicicletta attraverso la catena alpina, da Trieste a Ventimiglia.