GABRIELE ROMAGNOLI, la Repubblica 2/8/2010, 2 agosto 2010
MOLLO TUTTO/2
Anche senza essere campioni del mondo, premi Pulitzer o avere uno stipendio che finisce con troppi zeri. Basta molto meno, basta essere umani, basta avere dentro quel Dna che l´esistenza come l´abbiamo concepita sul pianeta Terra distorce, ma che riaffiora in chi non ha ancora tradito e ucciso la propria natura. Le persone migliori sono quelle che convivono con un dubbio: che cosa sto facendo? E quando sembrano aver trovato una risposta che soddisfa tutti, la cambiano.
Si passano i primi anni della vita a cercare un percorso.
L´educazione, il talento, il caso ce ne mettono davanti alcuni. Lo svincolo si riduce progressivamente a un bivio, quindi a una strada, che spesso appare maestra, asfaltata, illuminata, c´è perfino gente alle finestre che applaude e lancia fiori. E, questo è ancora più importante, porta esattamente dove si voleva. Questa la casella del questionario che si barrava da bambini alla voce: «Che cosa vorrei fare da grande».
Il traguardo è vicino, anzi è già alle spalle. Eppure la corsa non si è fermata. Come è possibile? Questo è il problema. Non c´è un punto in cui il cielo si curva e ci raccoglie consegnandoci a una nuova incarnazione. Eddy Merckx va avanti a correre quando i pedali si fan pesanti perché pensa non ci sia altro che la prossima tappa, Philip Roth accelera addirittura, un romanzo all´anno, come se fuori dalla pagina non riuscisse più a respirare. Poi ci sono quelli che strappano il sipario e invece di continuare la recita si siedono tra il pubblico o addirittura escono in strada a guardare il teatro da fuori, così spettacolare e vano.
Che cosa li ha presi? Quale insoddisfazione? Quella della vita che non basta a se stessa, che sogna di ricominciare ogni mattina con un sogno diverso, di misurarsi con quel che non sa fare piuttosto che con ciò che ha già dimostrato. Piuttosto che la stoltezza di chi arriva alla morte umana e professionale in tarda età ripetendo lo stesso consumato esercizio, meglio lo scarto nell´incomprensione, la ritrovata gioia del principiante, la scoperta di saper (non) fare un diverso mestiere o semplicemente di essere un altro tipo d´uomo o di donna.
«Non ti riconosco più!».
«E non è fantastico?».
Meglio altri trent´anni a dipingere lo stesso quadro, quei segmenti obliqui e colorati che tutti vogliono appendersi sul divano in tinta o schiantarsi in una improvvisazione senza riconoscimento che il proprio? E perché non abbandonarsi allora a quel che la vita è depurata di ogni complessità, spogliata del trucco, della moda, dell´orpello: cerchi un´altra mano, regali il tuo seme, ti avvicini agli animali?
«Scusi, ma non l´ho vista in televisione?»
«Avevo un fratello che mi somigliava molto. Ma non c´è più».
«Capisco, mi scusi».
«Niente. È la vita: continua».
Appunto, continua. Ma se è una retta, ogni punto è uguale all´altro e non ti accorgi di quanto vale il tempo. Prova a ricordare gli anni della gioventù, in cui tutto cambiava di continuo e li riavrai tutti. Ora fai lo stesso con gli ultimi cinque. Se non ci riesci, scendi, dovunque tu sia salito.
Quando il telefono ha suonato e una voce dall´Italia mi ha chiesto di scrivere questo articolo avevo appena finito di leggere sul New York Times la storia di Amanda Beard, vincitrice di 7 medaglie olimpiche nel nuoto, passata da vasche, podi, flash e infelicità sott´acqua a un precoce ritiro e una inattesa gioia della semplice vita familiare. Accartocciato il giornale mi sono rivoltato nel letto e mi è apparsa la scena iniziale di "Centochiodi" di Ermanno Olmi: una biblioteca di libri trafitti perché tutte quelle migliaia di pagine non valgono un caffè con un amico. Ho pensato a quanto volentieri avrei smesso di scrivere articoli e romanzi in cambio di una di quelle sensazioni. Poi ho acceso il computer, il mio nemico.