Antonio Airò, Avvenire 31/7/2010, 31 luglio 2010
OLIVETTI-CHURCHILL, L’ASSE MANCATO
Con la guerra ormai persa, mentre gli Alleati si preparavano allo sbarco in Sicilia e quindi a risalire l’Italia, il 3 luglio 1943 l’industriale Adriano Olivetti, tramite la neutrale Berna, faceva pervenire un memorandum alla direzione della SOE («Special Operations Excecutive »), l’agenzia inglese di «intelligence» che si occupava della sicurezza nazionale. Assicurava che Pio XII avrebbe acconsentito «a conversazioni e negoziati nella Città del Vaticano, se contattato ufficialmente dalla famiglia reale o dal governo britannico». L’imprenditore si dichiarava disponibile a incontrare direttamente il rappresentante inglese presso la Santa Sede e suggeriva di lanciare sulle nostre città una serie di volantini della sezione italiana della Bbc (dove operava tra gli altri Ruggero Orlando). Le informazioni di Olivetti (nome in codice «Brown») – con la chiamata in causa del Vaticano, certamente desideroso di una soluzione che ponesse fine al conflitto, ma estraneo all’iniziativa dell’imprenditore – erano l’ultimo passaggio di una missione, politica e anche diplomatica, iniziata nei mesi precedenti per arrivare ad una pace separata tra l’Italia e Gran Bretagna.
Una ipotesi, come è noto, più volte emersa negli anni della guerra e alla quale lo stesso Mussolini aveva pensato. Lo scenario che Olivetti aveva presentato ai suoi interlocutori inglesi si basava sull’emergere di una opposizione, sia pure «soft», al regime nella quale confluivano la principessa Maria Josè, il generale Badoglio – visto, anche se con diffidenza, con un occhio di riguardo dai «nemici» –, il riformista Ivanoe Bonomi, il maresciallo d’Italia Caviglia, il generale Raffaele Cadorna. Un’opposizione estesa anche ad alcuni gerarchi del fascismo sempre più critici verso il Duce. Tutti intenzionati a dar vita ad un «altro» governo con il principe Umberto e un triumvirato Badoglio, Grandi, Bottai alla testa. Una «fronda» che si sarebbe unita a quella antifascista, nella quale primeggiava il movimento di «Giustizia e libertà», ben visto dal SOE. A questo movimento, più radicale nella sua avversione al regime, si rifaceva un’altra missione in corso con lo stesso obiettivo, quella del console d’Italia a Lugano, Filippo Caracciolo, duca di Melito, e che aveva il suo uomo di punta in Ugo La Malfa. Da Londra, la proposta di Olivetti era ritenuta troppo «vaga». Le operazioni militari degli Alleati erano giunte a un punto di non ritorno. L’unica scelta per l’Italia era nella resa senza condizioni «per evitare di far sorgere sospetti in alcuni dei nostri alleati circa negoziati separati». La posizione del nostro Paese di fronte alla ormai sicura invasione delle truppe angloamericane doveva essere quello «di ridurre la durata della resistenza armata allo sbarco». Olivetti non si dava per vinto. Precisava la proposta. Ma come scrive Mireno Berrettini, ricercatore presso l’Università Cattolica di Milano, l’industriale «non indicava lo strumento: esercito regolare o rivolta popolare a disposizione del governo provvisorio per realizzare l’uscita dalla guerra». Pochi giorni dopo, il 25 luglio e quindi l’8 settembre aprivano un’altra drammatica prospettiva.
La ricostruzione delle missioni Caracciola e Olivetti, come quelle di altri politici (in particolare quella di Emilio Lussu), sono all’interno della ricerca di Berettini dalla quale è escluso il periodo successivo o all’armistizio e alla Resistenza, con una ricca documentazione ripescata negli archivi, non solo dell’agenzia SOE. Quell’opposizione nella quale il complesso mondo dell’antifascismo estero (quello più o meno organizzato, spesso velleitario e inconcludente), dell’emigrazione italiana, dettata da motivi politici abbastanza generici, della propaganda contro il regime tra i prigionieri di guerra con risultati insoddisfacenti (e non per una convinta adesione al fascismo) e della blanda opposizione interna, si presenta nelle sue diverse sfaccettature. Ma se emergono i limiti delle forze che in qualche modo tentarono di portare l’Italia fuori dalla guerra, non esce bene, come rileva nella sua introduzione lo storico Massimo de Leonardis, anche la Gran Bretagna «con tutti il suo carico di pregiudizi e luoghi comuni verso l’Italia a cominciare da quello che ’gli italiani non sono guerrieri per natura’ ». Berrettini ci ha offerto con questo libro uno spaccato nei rapporti tra i due Paesi finora poco approfondito. Anche se la lettura si presenta in non poche pagine farraginosa e con più di un errore tipografico.