Marzio Breda, Corriere della Sera 2/8/2010, 2 agosto 2010
E PARISE DIVENTÒ SPETTATORE IN SALA OPERATORIA
Il giorno in cui Goffredo Parise si accorge che nel suo corpo qualcosa non va, ha 38 anni. È in Vietnam per dei reportage sulla guerra e, mentre prende appunti, si rende conto che le mani gli «tremano, molto, e tremano le viscere e le palpebre». Certo, è sulla linea del fuoco e tutt’intorno esplodono colpi di mortaio e crepitano le mitragliatrici. Eppure quelli non sono soltanto segni di paura. Lo sa. Sono indizi di «un processo degenerativo di tessuti, vene, sangue» già in corso e classificato come arteriopatia diffusa. È cominciato «un pesante invecchiamento generale» destinato a sfociare in attacchi cardiaci, interventi di by-pass coronarici e sei anni di dialisi che a poco a poco lo consumano fino a stroncarlo il 31 agosto 1986. A neppure 57 anni. «Le malattie vanno maltrattate», ripeteva Parise. E lui le maltrattava sul serio, con deliberate sregolatezze. Ma le sorvegliava, anche, con la curiosità dello studente di medicina che per qualche mese era stato. Lo dimostravano le domande con cui incalzava un grande amico, Tommaso Tommaseo Ponzetta, chirurgo formatosi alla scuola di Valdoni, che è stato tra i pionieri del trapianto renale in Italia e, a lungo, primario all’ospedale di Treviso. L’incontro tra i due avviene a Salgarèda, il borgo vicino a Ponte di Piave dove lo scrittore si rifugia nella seconda fase della sua vita, tra una tappa e l’altra dei tanti viaggi. All’inizio comprando una casa abbandonata, «un relitto, poco più di un fienile», sulla golena del fiume e circondata da pioppi, salici, gelsi, alberi da frutto inselvatichiti: un «piccolo Eden» scoperto per caso e che entra subito nella sua geografia sentimentale. Poi, quando le condizioni di salute si fanno critiche e non può più affacciarsi alla finestrina sul tetto da dove scrutava un nido di upupa che gli piaceva mostrare agli amici, spostandosi in una più comoda abitazione in paese. Lì vicino, sulla via Postumia, c’è la villa dei Tommaseo, aristocratici di origine dalmata e per un ramo lontano discendenti del letterato e patriota di Sebenico, Niccolò. Parise comincia a frequentare il patriarca, Luigi, che vive con figli, nuore e nipoti ed è subito affascinato da quella gente, tanto da collocarla in uno dei suoi fulminanti, poetici Sillabari, intitolato «Famiglia», con questo incipit: «Un giorno, anni fa, un uomo che non aveva mai nessuno che girava per casa conobbe una famiglia di nome Tommaseo...». Ecco: fra loro trova, appunto, la famiglia che non ha. Con loro si sente «al caldo», specie quando certi suoi umori malinconici virano in forme di ruvida misantropia. Pranzi e cene. Chiacchiere davanti al camino. Battute di caccia in laguna. Passeggiate a cavallo lungo il Piave, le cui acque profumano della neve sciolta sulle amate Dolomiti e che è simbolo di un «Veneto barbaro di muschi e nebbie». C’è intimità, con i Tommaseo. Una sera Parise interroga una nuora del vecchio conte, Grazia, che ha appena avuto un bambino, nato prematuro e quindi in incubatrice. Le domanda che cosa succede al seno durante la gravidanza e come si forma il latte. Vuole sapere che gusto ha. E confessa che gli piacerebbe assaggiarlo. Desiderio esaudito: la donna, che deve «tirarsi il latte» per farlo portare al bimbo ancora nella nursery, gliene fa bere un sorso. Il sapore, scrive l’autore di Il prete bello, «era di latte, di miele, di margherite piccole o in erba e di persona umana». È un esempio della confidenza che Parise si prende in quella casa, dove si muove e parla con la naturalezza di un adolescente senza complessi. Una testimonianza delle sue curiosità di stampo quasi darwiniano, di uno che vuol «ficcare gli occhi nel fittissimo buio biologico», come ha osservato in un denso saggio Silvio Perrella. E poiché tra i Tommaseo trova «strambassi», umanisti e scienziati, come Tommaso, con il quale ha un legame particolare e che chiama «Masetto», una sera d’aprile del 1976 azzarda una richiesta davvero fuori del comune. «Fammi vedere che cosa succede nel nostro corpo quando le cellule impazziscono». Vuole esaminare da vicino «com’è fatto» il male, toccarlo con mano. Pure stavolta è accontentato. Indossa camice, berretto e mascherina, entra in sala operatoria e segue al fianco del chirurgo un intervento addominale, protendendosi sopra il tavolo «con una sorta di eccitazione» che obbliga gli infermieri a contenerlo. Quando il «pezzo anatomico» viene asportato e consegnato a un assistente, prende i guanti e lo palpa ed esplora. Pronunciando una frase di cruda, tremenda efficacia: «Com’è banale, assomiglia al gozzo di un pollo. Si muore per una cosa così banale». Poco tempo dopo, racconta il professor Tommaseo, che ha inserito questa storia in un libro dei suoi racconti lodati anche da Andrea Zanzotto ( Per raggiunti limiti
di età, Nuovi sentieri editore), Parise gli indirizza una lettera. E poi, in uno scambio che dura settimane, altre. Rivelatrici. «Caro Masetto, ho riflettuto sul tuo pensiero che considera la malattia il vero dramma dell’uomo. Ho riflettuto perché, a ben considerare, la malattia, cioè la degenerazione degli organi o anche di uno solo, è già una forma di morte, un inizio di morte. Quando penso, per esempio, che i miei polmoni e il mio cuore e con essi altri organi a lungo andare inevitabilmente degenerano, non penso alla malattia, bensì alla vecchiaia. E pensando alla vecchiaia penso, per procedimento di causa ed effetto, che essa è il vero inizio della morte. E questo, questo soltanto è, almeno per me, il vero dramma». E aggiunge, quasi in un presentimento del breve orizzonte che ha davanti: «Vedi, la malattia è, più che un dramma, un accidente drammatico che può essere anche tragico ma può anche non esserlo. Guardandoti operare pensavo tutto questo. Cioè vedevo "in corpore" l’azione contro la malattia, cioè la vita. Ma l’azione contro la vecchiaia, la chirurgia contro la vecchiaia non c’è, non esiste, se non per quelle prudenze, quei palliativi... Aliena dalla morte è dunque solo la giovinezza che, se anche muore, muore come si diceva un tempo (lirici greci) senza coscienza, senza amministrazione, drammaticamente se vuoi, ma anche felicemente per il poco e soltanto breve accumulo di dolore e di malinconia».