Francesco Alberti, Corriere della Sera 2/8/2010, 2 agosto 2010
LA DONNA DELLA FOTO SIMBOLO: «MI SENTO IN COLPA PER ESSERE SOPRAVVISSUTA»
BOLOGNA — «Io non sono solo una sopravvissuta. C’è qualcosa di più. Ora che ho 50 anni e che tante cose mi sono passate addosso, posso dire, posso dirmi: sì, ce l’ho fatta, non sono impazzita». Marina Gamberini, alle 10,24 del 2 agosto 1980, stava lavorando nel suo ufficio alla «Cigar», azienda di ristorazione, proprio sopra la sala d’aspetto della stazione di Bologna. Alle 10,25, il mondo le si spense addosso, con il boato della bomba. Alle 10,26, lei e il suo corpo schiacciato dalle travi altro non erano che un nome da cercare tra le macerie. «Poi, nel buio in cui mi trovavo, mi sono sentita toccare da una mano e ho rivisto la luce».
Nessuno può esattamente dire che ore erano, forse le 11, forse le 11, 30. Comunque è in quel momento, mentre la portano via in barella, che il flash di un fotografo la inquadra, la immortala, bloccando per s empre il suo sguardo terrorizzato, il braccio steso, la voglia di vivere assieme al terrore di essere sopravvissuta. Foto simbolo di una carneficina che mai sarà dimenticata.
«Ho odiato quell’immagine con tutta me stessa, ho impiegato anni per abituarmi al fatto che circolasse e anche adesso, ogni volta che la vedo, mi sembra di tornare a quel giorno», confessa Marina. Perché è in quella foto, in ciò che rappresentava, che per anni si sono annidati i fantasmi di una psiche che non ha mai accettato la condizione di sopravvissuta: «Sensi di colpa, fortissimi sensi di colpa — dice la donna, e nel tono ancora si avverte il segno della paura —. Non riuscivo ad accettare l’idea di essermi salvata, mentre le mie 6 colleghe di lavoro no». Le cita per nome, una ad una: «Katia, Mirella, Euridia, Nilla, Franca, Rita. Io allora avevo 20 anni, ero la mascotte del gruppo: loro mi insegnavano il mestiere, le avevo idealizzate. Quella bomba ha distrutto il mio mondo, salvando solo me».
Ci sono voluti anni di parole e terapie per liberare Marina dalla gabbia dei fantasmi. Ora le foto delle sei colleghe fanno parte della mostra, «Io sono testimonianza», che riunisce nella Sala Borsa di Bologna le immagini dei sopravvissuti con quelle di oggetti legati a chi non c’è più: un borsello, un cappello da capostazione, una maglietta. Vicino a Marina ci sono le sei colleghe: «Finalmente non sono io ad avere importanza, ma loro, che in tutti questi anni non hanno mai avuto voce».
Ha vissuto Marina, e non da sopravvissuta. Ha un figlio di 16 anni. Una famiglia. Un lavoro. Ha seguito in prima linea molte delle battaglie dell’Associazione familiari delle vittime e del suo presidente Paolo Bolognesi. Ha vissuto sulla pelle i silenzi e i veleni di una strage che continua a nascondere verità.
Fino al 1990, ha ricevuto un assegno mensile per quella bomba: «Era considerato infortunio sul lavoro: poi, all’improvviso, mi hanno tolto tutto». Di politica non parla volentieri: «Ho sentito tante promesse in questi anni: poche mantenute». Anche per questo non la scandalizza l’assenza, oggi per la prima volta, di un ministro in piazza.
Altre sono le ferite: «La disparità di trattamento tra carnefici e vittime. I primi vengono accompagnati e sostenuti in tutto il loro percorso. Noi siamo lasciati soli. E a questo non mi rassegnerò mai».