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 2010  luglio 31 Sabato calendario

IL VILLAGGIO IN INDIA CHE BLOCCA L’ACCIAIERIA. «SU QUELLA TERRA VIVONO GLI SPIRITI DEGLI AVI»


Al tribunale di Jagdalpur, India centrale, una folla di questuanti passa la giornata aspettando il rinvio ciascuno della sua prossima udienza. Tra una settimana saranno di nuovo tutti qui e la settimana dopo anche. Avere una pendenza giudiziaria, in India, è una professione che una fiumana di avventori svolge con flemma e disciplina, per lo più ingannando l’attesa in cortile intorno al chiosco dei dolci fritti.
Oggi nella calca c’è anche un piccolo gruppo di tribali di Sirisguda, un villaggio di 400 famiglie, guidati da un avvocato che sghignazza a ogni frase. Il legale è un borghese di città, induista; loro sono «adivasi» di campagna, aborigeni della tribù Madiya adoratori dei propri dèi locali, Prodesi, Parvadeo e Englajin, che a loro avviso risiedono ai confini delle risaie di Sirisguda. Vestiti da città gli adivasi si muovono un po’ a disagio, ma ottengono il solito rinvio sul loro mandato di carcerazione (torneranno il mese prossimo) e poi si lasciano riportare a casa stipati nella piccola Hyunday ammaccata dell’avvocato. All’uscita da Jagdalpur, sulla via verso i campi, passano davanti a un cartellone verde che presenta una certa iniziativa benefica di Ratan Tata agli abitanti della zona; il miliardario che guida la più antica famiglia industriale indiana vi appare in foto enorme, rassicurante. È parte del motivo per cui gli adivasi di Sirisguda dovrebbero andare in carcere.

Tata Steel, il gruppo che Fortune colloca al posto numero 410 fra i più grandi al mondo con ricavi da 21 miliardi di dollari nel 2009, progetta un’acciaieria da 4,1 miliardi e quasi 10 mila posti complessivi nel luogo dove ora vivono gli dèi e i risicoltori di Sirisguda. Ma in base alla costituzione indiana, Tata non può sfrattarli e prendersi la terra. Deve convincere gli aborigeni, la prima generazione ad aver mai mandato i propri figli a scuola, a vendere.

Dal 2006 Tata Steel ci sta provando. Da allora, l’amministrazione locale di Jagdalpur ha incriminato per reati contro l’ordine pubblico 13 capifamiglia adivasi che nelle assemblee si oppongono ferocemente all’accordo. È un passaggio delicato, in questa democrazia tuttora in coda a tutte le classifiche globali sulla corruzione: il gruppo di Mumbai ha messo a disposizione dei politici locali i fondi per l’offerta ai tribali, delegando loro l’operazione. Questa prevede l’acquisto della terra a 150 mila rupie (circa 2450 euro) per acro, quando il prezzo di mercato si aggira sulle 80 mila. Chi vende avrà diritto anche a tre anni di studi tecnici o di ingegneria per i figli, un po’ di terra altrove e a un appartamento nuovo in una vera casa di cemento, non più nelle catapecchie di selci accatastate dove gli adivasi vivono da sempre. A un giovane di ciascuna famiglia che dovesse accettare l’offerta, Tata garantisce poi un posto nell’acciaieria che sorgerà: remunerato tra le 30 e le 50 mila rupie al mese (fra 500 e 800 euro circa), l’equivalente del ricavo lordo annuo di un acro a riso grezzo; oggi, a Sirisguda, per crescere un figlio servono 7 mila rupie (115 euro) l’anno.
A queste condizioni, secondo l’azienda il 70-75% dei proprietari terrieri e otto dei dieci villaggi interessati hanno già aderito: più di 8 mila abitanti su 12 mila. A Sirisguda, invece, nessuno. A chiunque si chieda il perché, la spiegazione è la stessa: «Non possiamo vendere, a nessun prezzo. Lo spirito dei nostri avi si trova in questa terra».

In questo villaggio proprio al centro dell’area designata per l’acciaieria, oggi è il giorno del mercato. È la festa della settimana, uno spiazzo in cui circolano facce felici e madri di famiglia assorte nelle negoziazioni. Sui teli stesi a terra l’articolo più moderno è una piccola pila a batteria, utile per l’assenza totale di corrente da queste parti. Nessuno qui ha mai provato nei campi un macchinario a motore. I bambini in giro per il mercato sembrano ben nutriti, i vecchi, gli uomini e le donne sono spesso scalzi, a volte seminudi, tutti proprietari almeno di qualche acro, tutti ostili a Tata. Qui è raro trovare un adivasi che sappia esattamente quanti anni ha, il solo tempo che conta è un presente continuo, in equilibrio e senza progresso; l’unico passato rilevante sono gli avi, quelli che vivevano in questa terra «migliaia di anni fa».

Tata aspetta e non molla: ha disperatamente bisogno dell’acciaieria. Secondo Siddhartha Roy, economista del gruppo, oggi l’India paga le materie prime il 15% più della Cina perché non ne produce abbastanza e deve importarle. Qui intorno a Jagdalpur esistono giacimenti di ferro e bauxite fra i più vasti del subcontinente. L’acciaio di queste parti potrebbe alimentare il boom dell’industria indiana dell’auto, le cui vendite sono salite del 40% solo nell’ultimo anno. In un Paese con 500 milioni di poveri e un settore manifatturiero ancora debole, è da lì che possono arrivare i posti di lavoro del futuro. «Mi avessero detto dieci anni fa che l’India avrebbe esportato veicoli, avrei riso — dice Siddhartha Roy —. Ma nel primo trimestre del 2010 abbiamo venduto nel mondo più auto della Cina».

Visto da Sirisguda, il tempo non ha subito la stessa accelerazione. Agli adivasi basta seguire le risaie per cinque, massimo sei mesi l’anno e poi vendere il raccolto al prezzo garantito dal governo di Nuova Delhi. Nel resto dell’anno i tribali curano qualche capra, assaggiano certe grappe ricavate fermentando fiori degli alberi di «bauà» e nelle loro case di pietra della comunità, i giovani ogni tanto si ritrovano di notte, bevono, ballano fino al mattino. Possono divertirsi senza poi doversi sposare per questo: una tolleranza impensabile fra le cinque caste che stanno sopra di loro nella gerarchia indù, dai bramini ai dalit, gli intoccabili.

Il solo vero reato per i tribali è vendere la terra. In una sorta di protezionismo atavico, qui è proibito cedere un solo acro a una famiglia che sia estranea al villaggio. Ma Tata preme ancora, sempre più spesso la polizia di Jagdalpur aggredisce i tribali, li incarcera per mesi senza spiegazioni. E i guerriglieri maoisti che occupano la giungla nei dintorni stanno cogliendo al volo l’occasione: l’anno scorso, in un villaggio vicino hanno freddato a fucilate davanti a casa un tribale favorevole all’acciaieria. «I maoisti fanno buone cose» osserva Baldeo, un 35enne elegante e quasi azzimato nel giorno della fiera, portavoce di Sirisguda. «Almeno loro ci sostengono».
Pare lo facciano concretamente, secondo alcuni, perché avrebbero già consegnato un’arma al villaggio: atto simbolico della presa di controllo. Ma tra un mese al massimo il manipolo degli accusati di Sirisguda dovrà rimettere gli abiti da città, tornare a farsi vedere in tribunale. Per uscire da Sirisguda attraverseranno un campo aperto, scintillanti vasche di riso delimitate dalle selci e dagli alberi di mango. Lì sono allineate le steli degli antenati. I corpi sono stati bruciati da secoli, questi sono solo monumenti alla memoria. I più ricchi hanno montato certi piccoli archi di trionfo intagliati, altri hanno conficcato a terra steli coperte da graffiti di figure umane un po’ infantili, ma bellissime. Lì, sotto un grande albero di bauà, nella luce obliqua del tramonto, uno quasi capisce perché.