Leonardo Sciascia, Corriere della Sera 31/7/2010, 31 luglio 2010
LA MISTIFICAZIONE DI VERGA IN NOME DELL’ARTE E DELLA PATRIA
Sui fatti di Bronte dell’estate 1860, sulla verità dei fatti, gravò la testimonianza della letteratura garibaldina e il complice silenzio di una storiografia che s’avvolgeva nel mito di Garibaldi, dei Mille, del popolo siciliano liberato: finché uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, non pubblicò nell’ «Archivio Storico per la Sicilia Orientale» (anno VII, fascicolo I, 1910) una monografia intitolata Nino Bixio a Bronte (..) E non è che non si sapesse dell’ingiustizia e della ferocia che contrassegnarono la repressione: ma era come una specie di «scheletro nell’armadio»; tutti sapevano che c’era, solo che non bisognava parlarne: per prudenza, per delicatezza, perché i panni sporchi, non che lavarsi in famiglia, non si lavano addirittura.(…)
Sui fatti di Bronte, pur non tacendo a carico di Bixio anche i più rivoltanti dettagli (come, per esempio, l’atroce risposta al ragazzo che chiedeva il permesso di portare al Lombardo delle uova, alla vigilia dell’esecuzione: «Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in fronte»), il Radice insomma si china come su «un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano»: così come il Manzoni, cui questa frase appartiene, sul processo degli untori. (…) Il Radice aveva sei anni nel 1860; Giovanni Verga ne aveva venti: e i suoi ricordi della rivolta di Bronte e del circondario etneo, della repressione garibaldina, del processone che poi si tenne a Catania, dovevano essere ben vivi quando, nel 1882, scrisse la novella Libertà. Non sarebbe per noi una sorpresa, anzi, se dalle sue carte venisse fuori qualche redazione della novella di data più remota; o degli appunti, delle note, che in qualche modo dessero conferma a questo nostro sospetto: che in Libertà le ragioni dell’arte, cioè di una superiore mistificazione che è poi superiore verità, abbiano coinciso con le ragioni di una mistificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico e crispino, si sentiva tenuto.(…)
A darci la chiave della mistificazione di Verga è un piccolo particolare, che non si può cogliere se non si conosce la realtà dei fatti. Ecco il passo della novella da cui questo particolare vien fuori: «Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono». Abbiamo messo in corsivo il nano: ché è questo il punto. Verga sapeva bene che non si trattava di un nano ma di un pazzo: il pazzo del paese, un innocuo pazzo soltanto colpevole di aver vagato per le strade del paese con la testa cinta da un fazzoletto tricolore profetizzando, prima che la rivolta esplodesse, sciagura ai galantuomini; quel Nunzio Ciraldo Fraiunco che non ci sarebbe stato bisogno di una perizia per dichiarare totalmente infermo di mente e la cui fucilazione costituisce la pagina più atroce di questa atroce vicenda. E si vedano le Memorie di uno dei
Mille di Francesco Grandi, che il Radice non poté conoscere (sono state in parte pubblicate sul «Ponte» qualche anno fa): dove si racconta che per tutto il percorso dalla prigione al luogo della fucilazione il Fraiunco non fece che baciare uno scapolare che portava al collo e dire al garibaldino che gli stava vicino «La Madonna mi salverà»; e non fu colpito dalla scarica, per cui si gettò ai piedi di Bixio gridando «La Madonna mi ha fatto la grazia, ora fatemela voi»; e Bixio, al sergente Niutti: «Ammazzate questa canaglia».
Ci si può obiettare che, a carico di Bixio, Verga fece di peggio, nella novella: eliminò quel simulacro di processo, gli fece sbrigativamente ordinare la fucilazione dei «primi che capitarono»; ma in effetti non è così: ché la rappresentazione, sia pure in una sola frase, del processo, lo avrebbe obbligato a caricare il generale di feroce ipocrisia; e voleva invece, a conferma della leggenda, darlo soltanto, e con indulgenza, come un intemperante. E come la sua coscienza, certamente, era turbata, non volle turbare quella del lettore scrivendo «il pazzo»; e scrisse «il nano», dissimulando in una minorazione fisica la minorazione mentale (…)
Oltre l’arte, che in questa novella è grande, si sente l’evento fisico, ottico; la «cosa vista». E c’è un particolare che poteva sì, da quel grande scrittore che era, inventare o intuire, ma il fatto è che è stato detto nel processo, da uno degli imputati: «Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni - e tremava come una foglia». L’uccisione, questa, del giovane figlio del notaio: il notaio Cannata, uno dei più odiosi notabili di Bronte. Ed esattamente Verga ricorda come il notaio morì - «si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio» - come esattamente ricorda l’esclamazione di uno dei rivoltosi, a scrollarsi del rimorso di avere ucciso il ragazzo incolpevole: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!».
Ma la mistificazione più grande (in cui, ripetiamo, le ragioni della sua arte venivano a coincidere con le ragioni diciamo risorgimentali, cioè di una specie di omertà sull’effettuale realtà del risorgimento) è nell’avere eliminato dalla scena l’avvocato Lombardo: personaggio che non poteva non affascinarlo in quanto portatore di un destino, in quanto vinto. (…) L’avvocato Lombardo, quel personaggio che effettivamente il Lombardo era stato, avrà inquietato e la coscienza civile e la coscienza artistica di Verga. Dal punto di vista dell’arte, l’apparizione del Lombardo avrebbe dissolto l’atroce coralità della novella; né d’altra parte il Verga era portato ad assumere personaggi intellettuali, e per di più eccessivamente rivoluzionari: dal punto di vista dell’intendimento civile, cui per condizione sociale e culturale era legato, gli sarà poi parso che la rappresentazione di un simile personaggio, e delle circostanze di cui fu vittima, venisse a minacciare di leggenda nera la storia, dopotutto gloriosa, dell’unità d’Italia.
Ed il fatto che di un tale personaggio si sia liberato del tutto, che l’abbia così decisamente rimosso, ci fa congetturare in lui una inquietudine, un travaglio. O forse questa nostra congettura muove dal grande amore che abbiamo per Verga, dalla profonda pie
tas che Lombardo ci ispira. Chi sui fatti di Bronte aveva chiarissime idee (anche se le espresse con contorto linguaggio) era l’avvocato Michele Tenerelli Contessa, difensore degli imputati. La sua arringa veniva a tradurre in termini rigorosamente giuridici, in argomentazione di diritto, le più profonde istanze della vera, effettiva, concreta rivoluzione liberale (e diciamo liberale nel senso gobettiano). Poiché nemmeno il Radice ha tenuto conto di questa arringa (e a noi proviene dalle sue carte) ne diamo di seguito quello che ci pare il passo fondamentale: (..)
«Il programma di Marsala chiamava il popolo ad insorgere colle armi in pugno, contro il comune nemico. Or bene, chi era questo nemico? Il Borbone. Ma desso era fuori, né poteva cadere sotto i nostri artigli per poterne fare un altro Luigi XVI; gl’inimici erano tutti coloro che con qual si sia mezzo contrastassero il trionfo della rivoluzione. Ma fin qui la riscossa esprimeva un concetto confuso di tanti principii in lotta, quello di nazionalità splendeva di maggior luce, ma il popolo lo spalleggiava senza comprenderlo, si batteva con entusiasmo per il fascino di una grande idea, per l’istinto di vincere o morire sotto gli occhi del Dittatore, dell’idolo suo. Fino a questo momento non erasi sviluppato nessuno dei suoi interessi, la rivoluzione marcia avanti seguendo come ombra il suo eroe. (…) Un esempio metterà suggello alle mie argomentazioni. Immaginiamo che una banda di briganti invada oggi (badate, oggi) un comune del napoletano, e per sorpresa si impadronisca della pubblica amministrazione; e in seguito esca e armata mano arresti chi le si potesse opporre, covrendo questo atto reazionario colla bandiera tricolore come prima aveva ingannato nell’afferrare il potere servendosi del medesimo vessillo ... Tutti i ladri insomma che con la loro opera corrisposero a capello con i principii della restaurazione e, mediante la corruttela e la immoralità, la puntellarono, tutti erano briganti, tranne quelli che servirono, ripeto, la restaurazione come governo di fatto, al pari dei toscani che servirono il granduca...».
Evidentemente, questa arringa non convinse né i giudici né i giurati, quei «dodici galantuomini» che «certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà». E venticinque imputati si ebbero l’ergastolo, uno vent’anni di lavori forzati e due dieci, cinque i dieci anni se li ebbero di semplice reclusione. Forse parve anche a Giovanni Verga, questa difesa del Tenerelli Contessa, un armeggiare d’avvocato, una chiacchiera. (brani tratti dall’introduzione del 1963 al libro «Nino Bixio a Bronte di B. Radice» Salvatore Sciascia Ed. Caltanissetta, 1963)