Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 1/8/2010, 1 agosto 2010
L’ADDIO DEL CINEMA A SUSO CECCHI D’AMICO FIRMÒ I CAPOLAVORI DI VISCONTI E DE SICA
«Lo sceneggiatore non è uno scrittore; è un cineasta e, come tale, non deve rincorrere le parole, bensì le immagini. Deve scrivere con gli occhi».
Così Suso Cecchi d’Amico — scomparsa ieri a 96 anni dopo una lunga malattia — sintetizzava alla nipote Margherita il segreto di una professione che ha svolto per più di cinquant’anni, facendole conquistare sul campo il diritto indiscusso di far parte del gotha del cinema italiano.
Un posto che proprio quella dichiarazione di principio spiega e giustifica, indicativa di un atteggiamento aperto verso il cinema e non chiuso verso una qualche anacronistica «supremazia letteraria», di collaborazione aperta e fattiva con il regista (o con il progetto di un produttore) e mai di rivendicazione di inesistenti primogeniture: «Vengo sempre più convincendomi — diceva ancora alla nipote nel libro-intervista Storie di cinema (e d’altro) pubblicato da Garzanti — che la sceneggiatura è il bozzolo e il film la farfalla. Il bozzolo ha già in sé il film, ma è uno stato transitorio destinato a trasformarsi e a sparire. Lo sceneggiatore deve quindi impadronirsi al meglio della materia da trattare e lavorarci poi con il regista e con i colleghi per trarne una proposta valida in assoluto, mirata a sfruttare al massimo le possibilità del regista ed evitando il pericolo di fare letteratura».
E pensare che per origini familiari ed educazione, proprio la letteratura sembrava il suo destino. Nata alle 3 di notte del 21 luglio 1914 a Roma, terzogenita (ma il primogenito Mario nacque morto) di Emilio Cecchi e Leonetta Pieraccini, Giovanna Marianna Argere — subito soprannominata Suso o Susino — cresce tra la cultura «letteraria» del padre e quella «pittorica» della madre.
La conoscenza dell’inglese le fa trovare un posto al ministero delle Corporazioni ma il matrimonio con Lele d’Amico (primogenito del critico teatrale Silvio) sembra avviarla verso un’«oziosa» vita da sposa («Il fatto che io lavorassi non rientrava nella mentalità borghese dei d’Amico» confessò).
Ci pensano la guerra e le inevitabili ristrettezze economiche a riportare Suso verso il lavoro: insegna anche le buone maniere a Maria Michi, attrice in ascesa che un facoltoso protettore vuole rendere presentabile in società. Ma è l’amico di famiglia Renato Castellani che nel 1942 decide di coinvolgerla nel lavoro di sceneggiatura: il progetto (un adattamento del romanzo fantastico «Avatar» di Gautier) non va in porto, ma il seme è gettato e da quel momento darà frutti eccezionali.
Il vero esordio è nel 1946 sempre con Castellani ( Mio figlio professore), seguito l’anno successivo da Vivere in pace (Zampa) dove Aldo Fabrizi impara ad apprezzare le sue qualità, tanto da volerla anche in Il delitto di Giovanni Episcopo (Lattuada). Poi ancora Zampa la richiama per L’onorevole Angelina (con la Magnani) e la lista non finisce più.
In anni dove gli sceneggiatori sembrano intercambiabili e le riunioni di lavoro rischiano di disperdersi in chiacchiere, Suso (scrivono Tullio Kezich e Alessandra Levantesi nell’appassionante Una dinastia italiana sugli incroci tra le famiglie Cecchi e d’Amico, appena uscito da Garzanti) «è la signora che non perde d’occhio la struttura, proprio come l’architetto segue la costruzione del palazzo, e soprattutto dà concretezza alla cosa battendo una pagina dopo l’altra sulla sua famosa Olivetti. Ben presto comincia a circolare la voce che se in una sceneggiatura tutti sono utili, la Cecchi d’Amico è indispensabile».
Negli anni Cinquanta iniziano così i sodalizi con Monicelli (sedici film fatti insieme, tra cui I soliti ignoti e Speriamo che sia femmina), con Comencini (otto titoli, dall’esordio di Proibito rubare a Infanzia, vocazione, prime esperienze di Giacomo Casanova veneziano a Le avventure di Pinocchio), con Blasetti (da Fabiola a Peccato che sia una canaglia). La vuole De Sica per Ladri di biciclette (dove inventa il furto andato a male del finale) e Miracolo a Milano.
Lavora con Antonioni ( I vinti, La signora senza camelie, Le amiche), con Francesco Rosi ( La sfida, I magliari, Salvatore Giuliano), poi con Flaiano alla sceneggiatura di Vacanze romane (di William Wyler con Peck e la Hepburn) senza però essere citata nei titoli; ma è con Luchino Visconti che si instaurerà il rapporto più forte e intenso.
Dopo aver tradotto per lui alcuni testi teatrali, inizia a sceneggiare Bellissima (1951) e non lo lascerà più (con l’eccezione della Caduta degli dei e di Morte a Venezia) fino a L’innocente (1976).
Come ricordano sempre Kezich e Levantesi, «i due continueranno a darsi dei lei: lui si ostina a chiamarla Susanna (che non è mai stato il suo nome), lei gli si rivolge con l’appellativo, tra deferente e scherzoso, "Conte mio"», ma l’affetto e la sintonia si cementeranno sempre più. Come dimostrano i capolavori dove i loro nomi sono oramai indissolubili, da Rocco e i suoi fratelli al Gattopardo, da Vaghe stelle dell’orsa a Ludwig.