Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 1/8/2010, 1 agosto 2010
LA CINA, LA FIAT E UNA VECCHIA PARABOLA
Negli anni Sessanta del Novecento, Lucio Bellicini e i suoi fratelli guadagnarono molto ricavando tondino per cemento armato dall’acciaio Finsider di scarto nei loro laminatoi della Valle Camonica, in provincia di Brescia. Niente consigli di fabbrica, orari lunghi, bilanci in rosso quel tanto che preserva il cash flow dalle imposte. Quando, dopo l’autunno caldo del ’69, qualche tuta blu cominciò a frequentare il sindacato, i Bellicini ebbero un’idea risolutiva: trasferire una a una le «teste calde» in una fabbrichetta, ribattezzata Officina Stella Rossa, e poi chiuderla. Il sindacato rimase fuori. Ma il gruppo non riuscì comunque a evitare il tracollo dovuto all’insufficienza degli investimenti e della gestione.
Negli anni Dieci del nuovo secolo, la Fiat vara la newco a Pomigliano. Conferisce cioè a una nuova società, interamente posseduta, attività e passività dello stabilimento campano costringendo i dipendenti a controfirmare una lettera d’assunzione che fa riferimento all’accordo aziendale appena sottoscritto da tutti i sindacati meno la Fiom e che, a termine, li esclude dalle tutele del contratto nazionale dei metalmeccanici. Chi rifiuterà è destinato alla cassa integrazione e poi alla mobilità senza ritorno. È probabile che anche i lavoratori contrari all’intesa — oltre un terzo — accettino la proposta. Per difendere il piatto di minestra (che è la ragione per cui si va alla catena di montaggio), il dissenso operaio entra, per così dire, in semi-clandestinità.
L’esclusione dell’ala radicale non è priva di rischi in un Paese che, in altre stagioni, è stato teatro di tragiche violenze sociali. Ma a Pomigliano, dove l’assenteismo aveva raggiunto punte intollerabili, serviva una scossa. Bene ha fatto Sergio Marchionne a darla. E adesso gli accordi vanno onorati. Male ha fatto la Fiom a difendere anche l’indifendibile e a farsi mettere fuori dalla dinamica contrattuale nel maggior gruppo industriale del Paese.
Cinquant’anni fa, gli antenati dei Rinaldini e dei Landini ebbero la capacità di rileggere la storica sconfitta che avevano subito alle elezioni della Commissione interna Fiat nel 1955. Alla Fiom, e non solo alla Fiom, gioverebbe molto adattare quello spirito critico ai tempi nuovi. Oggi il conflitto di classe trova aedi inaspettati. The Economist esalta in copertina il crescente potere del lavoratore cinese. Che finalmente sciopera e ottiene aumenti salariali a danno dei profitti. E la Bibbia dei liberisti giustifica perfino il governo comunista che briga per orientare la protesta contro le filiali delle multinazionali estere: in fondo, siamo noi ad aver bisogno della Cina e non viceversa. Cambia il paradigma: ieri i bassi salari cinesi garantivano un risparmio di mille dollari l’anno sugli acquisti della famiglia americana tipo; oggi un 20% di consumi cinesi in più, grazie agli aumenti salariali, creerebbe 200 mila posti negli Usa. E allora, con la stessa spregiudicatezza intellettuale, mentre la Fiom ripensa il sogno rivoluzionario, i sindacati moderati e la classe politica dovrebbero ricordare la parabola dei Bellicini: senza prodotti adeguati, i sacrifici comprano tempo, ma non danno un futuro.