Massimo Gaggi, Corriere della Sera 1/8/2010, 1 agosto 2010
Il presente qui dentro riesce ancora a infilarsi di soppiatto, come una bava di vento che sguscia tra gli infissi malandati
Il presente qui dentro riesce ancora a infilarsi di soppiatto, come una bava di vento che sguscia tra gli infissi malandati. Ma non sarà sempre così. Perché un giorno lontano, quando Erri De Luca smetterà di rientrare dalle sue «chiacchiere» in giro per l’Europa e di lui resteranno soltanto i libri scritti, gli spifferi del tempo non violeranno più questa casa che, sigillate porte e finestre, potrà finalmente addormentarsi e consumarsi sotto il lichene dei ricordi finché non sarà pietra sbrecciata, polvere. Come capita alle cose. Come capita a noi. «Ho costruito questo cascinale con le mie mani, toccando ogni mattone, ogni tegola, ogni legno. Qui ho detto addio a mio padre e mia madre stringendoli fra le braccia — sussurra lo scrittore napoletano —. Quando anch’io sparirò, voglio che tirino giù il chiavistello e lascino tutto com’è. Nessuno dovrà più abitarci, nessuno dovrà più possederla. Non avrà eredi, perché racconta una storia che non può appartenere ad altri. Preferisco che maceri lentamente nel ciclo della terra». Non c’è posto pulito e illuminato bene che tenga al riparo dalle ombre. Anche in questo scampolo di campagna a pochi chilometri dal lago di Bracciano, dove Roma si sfarina tra le ville dell’Olgiata e i casolari della Cassia, sembra che all’improvviso i colori perdano lucentezza nell’opaco riflesso di un dolore. Poi la nuvola svapora e le parole tornano a scorrere fluide, lubrificate da un bicchiere di rosso toscano e irrobustite dal salame comprato nella fattoria di un amico sull’Appennino. Le pareti della grande cucina, nell’angolo che accoglie il tavolaccio, sono coperte da un arazzo di etichette, vini di ogni genere e luogo. Questa è la camera di compensazione della casa, lo spazio dove passato e presente riescono ancora a bere un goccio insieme. Oltre la soglia, l’impronta della vita quotidiana sbiadisce e le stanze diventano sempre più segrete, private, estranee all’incedere del tempo. Si susseguono ai lati, una accanto all’altra, calcando il perimetro orizzontale della stalla trasformata in abitazione. Attorno si stende un giardino che, malgrado le cure, ha conservato un sottofondo selvatico. Se metti insieme i pezzi, ne vien fuori un ritratto fedele di Erri De Luca, dove la sagoma smilza e sognante di Don Chisciotte convive con la natura concreta e tenace di Sancho Panza; si disegna il profilo di uno che per anni ha fatto contemporaneamente lo scrittore e il muratore, l’inventore di storie e l’operaio in fabbrica, mestieri ai poli opposti della nostra (striminzita) geografia culturale. Ma soprattutto emerge la nitida fotografia d’un napoletano di stirpe normanna (come Eduardo, La Capria, Troisi), tanto elegante, riservato e malinconico quanto sbracato, invadente e guascone può essere un vesuviano di ceppo spagnolo. «Sono arrivato qui per caso — rammenta l’autore de Il giorno prima della felicità —. Abitavo sulla Nomentana, nella parte opposta di Roma. Un vicino mi disse che da queste parti era in vendita un’antica stalla con un po’ di terreno intorno. Lui non aveva soldi a sufficienza e mi chiese se volevamo comprarla insieme. Io, però, non avevo una lira e proposi l’acquisto a mio padre, che accettò. Nel gennaio del ’78 cominciai a rimetterla in piedi con due muratori di Caivano, un paese vicino Napoli. La domenica tornavano a casa e il giorno dopo si presentavano di nuovo in cantiere con una pagnotta cotta al forno dalle mogli. E chi se lo dimentica il sapore di quel pane… Gli alberi del giardino li ho piantati tutti io, mentre l’acqua l’hanno trovata due vecchi rabdomanti. Arrivarono una mattina, gettarono in gola un bicchiere di vino, raccolsero un ramoscello a forma di ipsilon tagliato di fresco, gli tolsero la corteccia e presero a camminare tenendolo fra le mani. Dopo un po’ si fermarono e dissero: "Scavate qui". Avevano ragione: trovammo l’acqua alla profondità e nella quantità che ci avevano annunciato. Finimmo la casa a maggio. Qualche settimana più tardi, partii per Torino dove rimasi due anni a lavorare in fabbrica». Sarebbe tornato ad abitare lì dieci anni dopo. E quella stalla trasformata in dimora per i genitori, sarebbe diventata anche la sua casa. «È un posto al quale sono legato, ma potrei abbandonarlo domani. Chi si è estirpato da Napoli, non ha più radici: diventa un Napolide. Quella città cancella la geografia, non permette diserzioni. Sai di essere ospite ovunque. Ancora adesso, ogni volta che torno qui, prima di aprire la porta mi viene da chiedere permesso». Erri vive rintanato in una minuscola stanza affacciata sul giardino. Dentro ci sono: il divano sul quale si siede a scrivere con un quaderno poggiato sulle ginocchia; il letto arrampicato in cima a un soppalco; due chitarre (quella che aveva da ragazzo, appesa al muro, e la preziosa Ramirez che gli ha dato «in comodato d’uso» Gianmaria Testa, al riparo nella custodia); un lungo tronco di mimosa essiccato («Una pianta spontanea, che si abbatte da sola perché ha poche radici»); una statua lignea del suo amico Mauro Corona intitolata «La donna di Erri»; una vecchia macchina da scrivere su un treppiedi e, sotto la scala, una collezione completa di «Lotta Continua» («In giro in Italia ce ne sono meno di cinque. Questa la fece mio padre, non io: credo che fu un modo per starmi accanto»). In venti metri quadri è racchiuso tutto il suo mondo. Compreso il cielo, che se ne sta squadernato su un leggio al centro di una scrivania infinitesimale. È il volume della Scrittura Sacra, quello che De Luca ogni mattina, appena sveglio, legge e rilegge da anni, traducendolo dopo aver imparato da solo l’ebraico antico. Ha appena finito le pagine di Ester e si accinge a riprendere Daniele. «Bibbia è un termine greco che non mi piace. Quel libro ha subito molti danni dal dirottamento via Atene: con la mia traduzione cerco di farlo tornare a casa, risparmiandogli le contraffazioni in stile Taiwan, figlie della strafottenza verso il testo originale. Un esempio: il comandamento "Non nominare il nome di Dio invano". La versione letterale è completamente diversa: "Non solleverai il nome di Iod per falsità". Significa che quando chiamerai pubblicamente in causa la divinità, non dovrai mentire. Ed è l’unico comandamento cui si aggiunge la clausola dell’ imperdonabilità. Le traduzioni contraffatte sono state uno strumento di potere: in questo caso, chi stabilisce quando è "invano"? Il potere, ovviamente». Una passione che ti storce la vita, come fa il vento con gli alberi, può donare un nuovo sguardo e lasciarti intravedere i suoi segni perfino in due ramoscelli trovati nel bosco. De Luca li ha raccolti e inchiodati sulla parete dello studio. Hanno la forma delle lettere con cui comincia e termina la Scrittura Sacra: la «bet» di «bereshit» (in principio); la «lamed» di «vaiaal» (e salì). Poi ha intagliato nel legno l’intero alfabeto ebraico, stavolta modellandolo con le sue mani, e l’ha incollato su un altro muro. Guardi quell’intarsio di segni e ti accorgi che per ospitare il riassunto di un uomo, il distillato dei suoi amori, alla fine basta una piccola stanza. Ma capisci pure che non puoi imprigionare il passato finché in quella piccola stanza soffia un alito di presente. Perché l’incrinatura che all’improvviso segna la voce di Erri mentre chiude la porta di casa, diventa la tua. Le sue parole si appiccicano addosso perché raccontano il nostro quotidiano, inutile, esodo dal dolore: «Da quando è morta mia madre, cerco di stare a casa il meno possibile. Le sue ceneri sono sparse in giardino, così voleva. Ma la cenere non dà radici». La chiave gira nella toppa con un rumore secco. Non rimane che andar via. Per una volta ancora.