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 2010  agosto 01 Domenica calendario

SE VA IN FRANTUMI IL SOGNO AMERICANO DEL CETO MEDIO

New York — «Chi ha ucciso il sogno americano?» si chiede angosciata la sinistra Usa. «Ridateci indietro il nostro Paese» gridano in coro, sul fronte opposto, i radicali conservatori dei Tea Party, nostalgici delle battaglie di libertà di «padri fondatori», ma anche del benessere perduto della seconda metà del Novecento. In mezzo Barack Obama che, alle prese con una drammatica crisi occupazionale e con un disastroso indebitamento (in gran parte ereditato), fatica a convincere non solo la destra ma anche gli stessi elettori democratici dell’ efficacia della sua politica: interventi costosi e poco spettacolari che hanno, però, evitato il peggio e riaperto qualche spazio per una possibile ripresa.

Sergio Marchionne ed Ed Whitacre — i capi di Chrysler e General Motors venerdì al suo fianco negli impianti dei due gruppi che, usciti un anno fa dalla bancarotta con l’aiuto dello Stato, hanno ripreso a crescere, fare utili e ad assumere — sono una sponda importante per il presidente, ma non la soluzione del problema. Perché il problema, in America come in Europa, va ben oltre l’impatto della recessione scoppiata nel 2008: il nodo è quello del progressivo impoverimento della middle class per effetto della globalizzazione, del cambiamento dei rapporto di forza tra produttori e consumatori imposto dalle nuove tecnologie informatiche e anche della fine dell’illusione che tutto questo potesse essere corretto — o, meglio, nascosto — con un ricorso senza fine al debito pubblico e privato.

Il crollo di due anni fa ha solo esacerbato un problema che montava da tempo. Chi scrive ha pubblicato cinque anni fa (con Edoardo Narduzzi) un saggio sulla progressiva scomparsa del ceto medio e il trasferimento del benessere e del potere economico dall’Occidente all’Asia. E non siamo stati certo noi i primi a sostenere che questo trend avrebbe reso entro pochi anni insostenibili i generosi livelli di welfare ai quali ci siamo abituati a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Una situazione destinata a creare una pericolosa instabilità politica.

È quella che sta sperimentando Obama, alle prese con la forza crescente dei movimenti radicali alimentati dalle frustrazioni e le paure degli americani che vedono svanire il loro benessere. Gli operai della Chrysler che lo festeggiano e che abbracciano l’amministratore delegato che ha salvato il loro posto di lavoro rappresentano un piccolo mattoncino dell’operazione-fiducia che la Casa Bianca tenta di mettere in piedi, ma non sono la soluzione del problema: i 1100 nuovi posti di lavoro dello stabilimento di Jefferson North sono solo una goccia nell’oceano della disoccupazione Usa e poi, con un salario ridotto a 14 dollari l’ora, i nuovi assunti potranno vivere con un minimo di decenza e con una buona assistenza previdenziale e sanitaria, ma certo non godranno del benessere dei loro colleghi di cinquanta anni fa.


Colpa della Chrysler a Detroit o della Fiat a Mirafiori? Le politiche di bilancio e le convenienze finanziarie degli azionisti del Lingotto vanno di certo analizzate criticamente, così come si può discutere della «moralità» della prassi (peraltro ormai diffusa in molti settori, stampa compresa) di corrispondere retribuzioni diverse a persone che svolgono le stesse mansioni. Ci si può anche chiedere (come faceva qualche giorno fa Luciano Gallino) se non sia stata persa in passato l’occasione di costruire una globalizzazione non basata su una concorrenza salariale al ribasso, ma su garanzie minime per i lavoratori di tutti i Paesi.

Stiamo, però, parlando di responsabilità politiche, non aziendali. Per anni i sindacati occidentali hanno cercato inutilmente di ottenere, non solo dai governi ma anche dai rappresentanti dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, impegni a difendere standard minimi retributivi e di sicurezza.

Le aziende hanno interesse a operare i Paesi ricchi, con elevati livelli di consumo, ma difendere il ceto medio, garantire la tenuta del tessuto sociale non è un loro compito. Negli Usa l’ha capito anche l ’Uaw, il sin-dacato dell’ auto che - dopo aver difeso ostinatamente per anni il modello dell’operaio «affluente» che costava 1500 dollari per ogni auto venduta di sola assistenza sanitaria - alla fine ha dovuto ribaltare la sua posizione, diventando il miglior alleato dei manager di Gm e Chrysler.

Ieri Marchionne ha fatto cenno alle peculiarità dell’Italia, dove la Fiat ha svolto un ruolo che va la di là di quello della semplice impresa. Ma anche da noi non può essere un’azienda, per quanto importante essa sia, a gestire il nodo della trasformazione di un modello sociale. Mantenere il Paese competitivo in un contesto di globalizzazione è responsabilità, in primo luogo, della politica.

In America c’è perfino chi come Andy Grove, l’uomo che ha trasformato l’Intel nel gigante mondiale dei microchip, avverte che puntare tutto sull’ «economia della conoscenza» è un errore perché software e servizi non bastano a recuperare i posti perduti nell’industria. Grove ha scioccato gli imprenditori Usa proponendo di tassare le aziende che trasferiscono lavoro all’estero. Ma l’ex capo dell’ Intel, un «grande vecchio» dell’industria che si è ritirato da molti anni da ogni incarico operativo, parlava al governo, non ai manager.