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 2010  agosto 01 Domenica calendario

MIO MARITO SCAGLIA E IL DIVIETO DI AFFACCIARSI ALLA FINESTRA DI CASA

Caro direttore, forse lo studio del cinese, che ormai pratica con assiduità, esercita alla pazienza. Oppure, com’è più probabile, Silvio Scaglia, cioè mio marito, di fronte a questa assurdità si è salvato grazie al suo profondo senso del dovere. Ovvero, la sua mentalità da ingegnere lo porta ad obbedire ai comandi dell’autorità perché ci sarà pure un motivo dietro certe imposizioni. Fatto sta che mio marito, agli arresti domiciliari dal 17 maggio scorso nella nostra casa in quel di Antagnod, val d’ Ayas, interpreta alla lettera le disposizioni impartite dal gip: divieto assoluto di comunicare con il mondo esterno, con l’eccezione della sottoscritta. Guai ad affacciarsi al balcone o respirare all’aria aperta: la sagoma delle montagne, bellissime, resta al di là del vetro. Poco più di un miraggio. Anzi, un simbolo di quella libertà che gli è stata sottratta, ingiustamente. Non mi è facile spiegare se e come sia cambiato Silvio dopo questi 160, terribili giorni. L’ostinazione ed il senso del dovere sono quelli di un tempo. Compreso il rispetto della giustizia, sia quella con la G maiuscola che quella, ben più misera, che la nostra famiglia ha sperimentato dallo scorso febbraio. E che mi ha profondamente delusa, anche dal punto di vista umano. E’ grottesco che si parli, a proposito del nostro codice, di presunzione di innocenza. Mio marito è innocente e lo dimostrerà nelle sedi opportune. Nel caso nostro, al di là delle contestazioni di diritto, quel che mi ha ferito è stata la totale assenza di qualsiasi forma di rispetto nei suoi confronti. Anzi, il susseguirsi di piccole o grosse prevaricazioni e di promesse mai mantenute, quasi che si voglia far pagare a Silvio la decisione di mettersi a disposizione della giustizia senza alcuna condizione, facendo ritorno in Italia per fare il proprio dovere di cittadino. E’ stata una decisione naturale, presa di comune accordo senza esitazioni. E lui nelle stesse condizioni si comporterebbe di nuovo allo stesso modo, nonostante quel che ha passato. Ma non posso dimenticare che ieri, quando si è sposato mio fratello, Silvio non c’era. In un certo senso, dunque, è il Silvio di una volta. Ed è la sua prima grande vittoria. Ad aiutarlo, poi, c’è un’indefessa curiosità intellettuale. Il tempo libero forzato gli ha offerto la possibilità di leggere molto, documentarsi e riflettere. Non ha perduto la voglia di esplorare terreni nuovi, alla ricerca di innovazione. Sotto la scorza della disciplina dell’ingegnere, chi lo conosce capisce che qualcosa è cambiato: è più indulgente verso il prossimo, a partire dai suoi manager che in passato hanno provato sulla loro pelle quanto Silvio possa essere esigente verso di sé e gli altri. Ora vedo che lui ha capito l’importanza di aver creato una vera squadra. Chissà, forse questa esperienza, lungi dal fiaccare la sua resistenza ed il suo spirito, lo ha completato come uomo e come imprenditore. Non vorrei che queste parole servissero a far passare in secondo piano la gravità di quel che stiamo passando. Silvio è privato della sua libertà da cinque, lunghi mesi. Negli ultimi ottanta giorni, passati a fare il giro della propria stanza, gli è stato negato anche il diritto all’ora d’aria. Ed è tutt’altro che certo che possa presentarsi al processo a piede libero per difendersi da accuse che non sono suffragate da prove. La sua, insomma, è una storia di straordinaria ingiustizia. Al solo pensarci io, che non ho la pazienza di Silvio, fremo dalla rabbia. Poi mi capita di ripensare ad un episodio della settimana scorsa: si era fulminata una lampada alogena, Silvio l’ha cambiata e mi ha dato la vecchia per buttarla in pattumiera. «Che devo fare — ho chiesto — la metto tra gli oggetti da riciclare?». «Io — mi ha detto — quella parola non la voglio sentire più: in casa mia il verbo riciclare è proibito». E ci siamo fatti una bella risata liberatoria. In attesa che torni il tempo della giustizia.
Monica Aschei Scagli