D. Ma, Corriere della Sera 1/8/2010, 1 agosto 2010
IL PREMIER: I FINIANI? LI CREDEVO DI MENO MA NON ANDREMO AL VOTO ANTICIPATO
La tentazione l’ha avuta, ma l’ipotesi di andare a elezioni anticipate Silvio Berlusconi ora la respinge conforza . Nel pr i mo weekend di quiete (forse) trascorso a Torre Crescenza, nella residenza Borghese, il premier ha cercato di misurare, a mente più fredda, la reale forza della sua maggioranza dopo la rottura con Fini. Precaria. Non nasconde qualche delusione: pensava che i deputati di Futuro e Libertà non superassero le ventisei, al massimo ventisette unità e non arrivassero a quota trentatré, come in realtà è accaduto. Ma non dubita sulla loro lealtà al governo e si aspetta che la prima prova si possa avere con la votazione sulla mozione di sfiducia al sottosegretario alla Giustizia Caliendo, indagato dalla procura di Roma per violazione della legge Anselmi sulle società segrete.
Tranquillo? Non proprio. Berlusconi deve essersi accorto che il costo d’immagine per il suo governo, specialmente all’estero, è tutt’altro che trascurabile. E si propone di correre subito a ripari. Vacanze di lavoro e l’annuncio che il cammino delle riforme, a cominciare dal federalismo fiscale, che preme alla Lega, refrattaria al voto anticipato, riprenderà deciso alla ripresa autunnale. Però, c’è qualcosa che turba in modo particolare il premier ed è probabilmente una preoccupazione che deve avergli trasmesso il ministro dell’Economia Tremonti. Va bene il regolamento dei conti con i finiani, andato peraltro non esattamente nel modo sperato, ma stiamo attenti ad altri conti. Più importanti. Quelli con i mercati internazionali. La speculazione è sempre in agguato. Lo spread, un termine inglese che usa anche il premier, e stranamente, ovvero la differenza fra i rendimenti dei nostri titoli di Stato e quelli dei principali Paesi europei, indicatore sensibile della credibilità nell’onorare le scadenze del proprio debito pubblico, è tenuto costantemente sotto controllo. È bene dire subito che non vi sono motivi immediati di preoccupazione. Lo spread con il bund tedesco è stabile a 130, quello con la Spagna a 28. L’approvazione della manovra e i segnali di ripresa dell’economia reale completano un quadro difficile ma nemmeno così critico nel confronto con le altre economie europee.
Berlusconi non vuole passare per un’anatra zoppa, o come un premier orgoglioso ma ferito dal fuoco amico e con una maggioranza a rischio. No, non ci sta. Lui si considera il numero uno in Europa: snocciola i gradimenti, bassi, degli altri leader, Merkel e Sarkozy a testimonianza del grado di tenuta del proprio governo. Non vi sarà alcuna crisi, afferma con decisione. Non c’è il rischio di un ricorso anticipato alle urne e l’ipotesi che si possa formare un governo tecnico è semplicemente fuori dalla realtà. Eppure i numeri, glielo ricordiamo, soprattutto alla Camera, suonano amari. Berlusconi spiega le adesioni alla truppa finiana, superiori al previsto, con qualche delusione personale di troppo, e con una forma sottile di ricatto che sarebbe stata esercitata da chi, leggi il presidente della Camera, avrebbe reso possibile la candidatura di molti dei fuoriusciti. Insiste nel sottolineare che ha parlato e parlerà con ognuno di quei trentatré. Hanno firmato il documento di costituzione al nuovo gruppo ponendo tre condizioni. La certezza che gli "esagitati", Bocchino, Briguglio e Granata non avrebbero ricoperto incarichi direttivi, la fedeltà al governo e il voto in sintonia con le sue leggi. Spiegata così, la frattura sembra il distinguo blando di una corrente della maggioranza. Le parole di Fini? Non hanno importanza o almeno non sembrano averne. Il premier è felice dell’ipotesi che il sottosegretario Roberto Menia, che mostra di apprezzare, possa diventare capogruppo. Lo ha sentito ieri al telefono. D’ora in poi sarà lui il suo interlocutore privilegiato. Fini non esiste o si fa in modo che sembri non esistere. Il suo gruppo vale elettoralmente, secondo le proiezioni dei suoi esperti, tra l’1,2 e l’1,4 per cento, se si presenta da solo, e tra il 3 e il 4 per cento se si apparenta con il Popolo della Libertà. Quando aderì al nuovo partito, An non andava, sempre secondo le parole del premier, al di là del 6 per cento. E fu questa una ragione per entrare nel Pdl, da solo Fini avrebbe avuto paura di una de
bacle elettorale. E al Senato, Cavaliere? Cinque dei dieci senatori che si appresterebbero a formare il gruppo di Futuro e Libertà a palazzo Madama sarebbero, nelle sue parole, sul punto di tornare indietro. E lo avrebbero fatto, o starebbero per farlo, dopo una sua telefonata. E dunque addio al gruppo finiano al Senato e un colpo definitivo all’ipotesi di un governo tecnico che non avrebbe i numeri per costituirsi. Staremo a vedere.
Un ragionamento di questo tipo è stato fatto ieri, in una lunga telefonata, anche al capo dello Stato, il quale ha ribadito al premier di essere soltanto un osservatore dell’evoluzione assai caotica e confusa del quadro politico. Napolitano ha precisato ancora una volta di avere un’unica preoccupazione: che una sorta di guerriglia politica non metta in discussione il ruolo istituzionale del presidente della Camera. Il parallelo con Pertini non ha senso. Se il governo è forte e la maggioranza stabile siano i fatti a dimostrarlo. Il rifinanziamento delle missioni all’estero, il voto sulla riforma universitaria, il via definitivo alla manovra (quando la Germania l’ha rinviata a settembre!) sono avvenuti in pochi giorni. Governo e Parlamento avrebbero tutto il diritto di vantare una prova di efficienza non disprezzabile delle istituzioni del Paese, è stato in sintesi il pensiero del capo dello Stato.
Dunque: no ad elezioni anticipate. Sollecitazioni in questo senso sarebbero arrivate al premier anche da settori dell’opposizione e dello stesso Pd. L’offerta di allargare la coalizione all’Udc rimane sempre valida. Il posto di Scajola è libero, anche perché l’ipotesi di Romani si è scontrata con i dubbi, legati alla legge sul conflitto d’interessi, del Quirinale. Ma i ripetuti no di Casini non sono piaciuti a Berlusconi il quale parla dell’ex alleato come di un modesto calcolatore di convenienze politiche e di consenso di breve respiro. Ma se ci fosse lui, la Lega sarebbe di più facile contenimento o meglio esonderebbe di meno. Il premier fa l’esempio delle ronde, che lui non voleva. E che sono state un autentico fallimento. Ecco, se ci fosse stato Casini, l’avremmo contrastata meglio la Lega, dice il premier. Già, ma allora perché fu deciso, dopo il famoso discorso del predellino e la nascita del Pdl, di lasciarlo fuori il leader centrista?
Il disegno di legge sulle intercettazioni non sembra interessare più al premier. Lo considera svuotato (per fortuna aggiungiamo noi) e inefficace. Se non finisse per fare un piacere all’opposizione, lo ritirerebbe. Sarà votato alla ripresa. E se è necessario ne sarà fatta un’altra di legge sulle intercettazioni. Il cammino delle riforme, nelle intenzioni del premier, dovrebbe riprendere dopo le ferie con una forte accelerazione del federalismo fiscale che si pone come obiettivo anche un concreto risparmio sul versante della spesa, specie sanitaria. L’eventuale beneficio potrebbe andare per metà a riduzione del deficit e per l’altra metà a favorire l’adozione sul versante fiscale del quoziente familiare e il contenimento dell’Irap. Poi toccherà alla giustizia e alla riforma istituzionale. Se ci sarà il tempo, e se me lo faranno fare, conclude il premier.