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 2010  agosto 01 Domenica calendario

LE TORRI SICURE DEL DESIDERIO

Ci sono molti modi per ritrarsi dalla vita affollata della città. Il castello è uno dei più dolci, un arroccarsi sereno su se stessi, una proclamazione d’autonomia. Lì il passato tende la mano alla natura, la socialità convive con la solitudine.
Montesquieu aveva sovente pensato di far incidere sul frontespizio del castello trecentesco della Brède:«O fortunato!».Se non l’aveva fatto era solo per quel naturale senso della misura che l’allontanava dolcemente dagli eccessi. Leggeva e scriveva nell’immensa biblioteca del «più bel posto che conosca » o passeggiava con un lungo bastone nelle vigne, chiacchierando con i contadini.
Un altro aristocratico invidiato per la sua inclinazione alla felicità, il principe de Ligne, scrisse addirittura un libro,
I giardini di Beloeil (Sellerio) per celebrare il verde sfondo del suo castello. Alla morte del padre, che l’aveva plasmato, Ligne creò un «villaggio tartaro», due templi e una cascata, un giardino all’inglese e un giardino filosofico.«Il soggiorno in campagna non è mai così piacevole come quando si vedono boschi, prati e acqua assumere per nostra mano ogni giorno una nuova forma ». Per Buffon, nato da una famiglia borghese, il castello era un traguardo e rifugio in cui lavorare all’immensa Storia naturale ,fare esperimenti e addirittura creare un’importante fonderia. C’erano dodici appartamenti lussuosamente arredati, ma lui viveva sobriamente e si alzava ogni mattina alle cinque. Alle sei attraversava il parco per chiudersi nello studio, nella torre del castello. Camminava con aria fiera, assorto nelle sue meditazioni con un bastone nella destra e l’altra mano sul fianco.
Era contraddittorio il rapporto del marchese de Sade con il piccolo castello provenzale di La Coste. Da un lato si annoiava e organizzava recite e orge. Dall’altro faceva piantare alberi e dal carcere si informava minutamente sui loro progressi.
Molti anni dopo chiedeva: «E il mio povero parco, vi si riconosce ancora qualcosa di me?
».
Più povero Diderot passava molto tempo nel castello del Grandval dell’amico, il materialista barone d’Holbach, il primo maggiordomo della filosofia, come l’aveva soprannominato l’abate Galiani per la sua ospitalità. Nel pomeriggio gli ospiti facevano una lunga passeggiata, godendo dello spettacolo della natura. Rientravano solo alle sette, per riposarsi, e giocavano a carte fino all’ora di cena. Poi, lasciata la tavola, si lanciavano in audaci, interminabili discussioni.
«Voglio un castello rinascimentale con un padiglione gotico in mezzo a un lago. Il parco dovrà essere all’inglese, con delle cascate». «Ma signor Dumas, non è possibile! È una collina d’argilla. Le costruzioni scivoleranno nella Senna ». Sul fastoso castello di Montecristo, così chiamato in omaggio alle grandi vendite del romanzo, campeggiava il motto di Dumas: «Amo chi mi ama». Non erano le sole scritte di quella costruzione, un’indescrivibile, fastosa mescolanza di stili. «È un monumento in versi », sentenziò, ammirato, un amico. Su due banderuole di zinco era inciso il " grido" della famiglia paterna, Davy de la Pailleterie: «La fiamma al vento! L’anima al signore!». Nella fastosa camera moresca due sonetti del Corano coronavano le porte: «La parola è d’argento e il silenzio è d’oro» e «Chi picchia il cane colpisce il padrone».Presto l’eccentrico castello era diventato la meta favorita dei fannulloni parigini. Dumas porgeva sorridendo la grossa mano alle torme di sconosciuti. Una sera, al figlio che gli chiedeva di presentargli uno dei commensali, aveva risposto olimpicamente: «Per presentartelo, aspetto di essergli presentato io».
Il castello più amato fu forse quello modesto di George Sand. A Nohant, come racconta Anna Kanakis, in Sei così mia quando dormi (Marsilio), gli ospiti erano incantati dalla cortesia con cui li accoglieva Fadet, il cane della scrittrice. Dopo averli sa-lutati educatamente, seguiva con discreto interesse lo svuotamento delle valigie, poi li guidava dentro il parco. Lì la scrittrice faceva collezione di farfalle e viveva tra amici come Flaubert e Turgenev e amanti come Chopin.
Un altro gruppo di artisti, quello di Bloomsbury, trovò ospitalità nel maniero di Garsington, vicino a Oxford, dove l’eccentrica lady Ottoline Morrell non si limitava a circondarsi di pavoni, ma aveva fatto smaltare le inestimabili boiseries Tudor nella tinta esatta dei suoi occhi pervinca. Tra quelle mura passarono la Mansfield e la Woolf, Eliot e Yeats, Lytton Strachey e Keynes, Lawrence, Russell e Huxley, che ironizzò su quella vita in «Giallo cromo». Affascinata dall’artificioso clima del castello la Woolf si chiedeva: «A Garsington il tramonto è normale? No, io penso persino il cielo sia rivestito di seta giallo chiaro e che di certo i cavoli siano profumati ». Ma lo scopo di tutto era la conversazione che fluiva instancabile tra i saloni e la camera da letto dell’eccentrica lady.
Colette sembrava non considerare Castel-Novel, la fiabesca fortezza del marito, Henry de Jouvenel. Ma quell’isolamento dorato l’aiutava a concentrarsi sulla figlia prima trascurata, ma soprattutto sul grande parco. Quando la bimba era stata punta da una vespa l’avevasgridata perché aveva provocato il povero insetto. In quel «castello effimero perso nella lontananza», adesso albergo con ristorante, soprattutto scriveva in una vasta camera all’ultimo piano,dominata da uno smisurato letto.
La Sagan aveva investito le vincite al gioco nel castello del Breuil, vicino a Honfleur, dove lavorava nella sua camera verde o giocava coi cani sul prato. «Vorrei la campagna», aveva detto alla moglie il fondatore del Nouveau Roman, Robbe-Grillet. «Ma non una fattoria!». «Allora un castello!». Nella camera segreta del castello di Robbe- Grillet, erano schierati gli strumenti di quel cultore del sadomasochismo: fruste, manette, corde e corone di spine. Ma ormai sembravano solo un lontano ricordo.