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 2010  luglio 31 Sabato calendario

AD HAIFA, CITTÀ-CULLA DEGLI ARABI CHE VIVONO IN ISRAELE

Haifa. Haifa reca ancora i segni dell’evacuazione forzata di 80mila palestinesi avvenuta nel 1948 e fissata nella memoria collettiva da Ghassan Kanafani. Lì, alle pendici del monte Carmelo, le abitazioni che appartenevano alla borghesia palestinese sono ora il segno di un’epoca passata. Vuote e cadenti. Proprio lì, tra le viuzze in salita che danno le spalle al porto, c’è il Mossawa Center, simbolo di un’integrazione ancora difficile. Nato nel 2000, il centro, che ha contatti con Ong europee ma non italiane, si occupa di migliorare le condizioni del milione e mezzo di cittadini arabi-palestinesi che vivono in Israele, attraverso un lavoro di consulenza sulle questioni legali, socio-economiche e campagne di sensibilizzazione. “Mossawa” in arabo vuol dire uguaglianza.
«Le differenze si notano già a colpo d’occhio, nella diversità tra i quartieri palestinesi e quelli ebraici», esordisce il direttore dell’associazione, Jafar Farah. In piedi, di fronte a una lavagna, elenca dati. «I palestinesi sono circa il 19 % della popolazione israeliana e vivono principalmente nel Negev, in Galilea o in città miste come Haifa e Jaffa. Oggi posseggono in Israele solo il 3,5 % delle terre e ricevono il 5% di fondi governativi destinati allo sviluppo. Questo crea una distanza economica sempre più ampia fra le due comunità».
Come si è arrivati a questa situazione?
Nel 1948 circa il 25% della popolazione palestinese è diventata rifugiata interna. Tra il 1948 e il 1956 Israele ha portato avanti una politica di trasferimenti di interi villaggi palestinesi all’interno dei confini israeliani, nonostante il cessate il fuoco del 1949 lo impedisse. Dopo questa prima fase più aggressiva si è passato poi a confische di territori effettuate su basi legali.
Contro quali tipi di discriminazioni vi battete?
Ci sono situazioni inaccettabili, come l’impunità verso quegli israeliani che commettono omicidi di cittadini arabi. Soltanto la settimana scorsa la Corte di Giustizia ha deciso per una condanna nei confronti di un israeliano che ha ucciso un palestinese, ma il ministro dell’Interno ha aperto la procedura di impunità nei suoi confronti. Ad oggi, in Israele ci sono ben 35 leggi che discriminano la parte della popolazione israeliana araba e riguardano principalmente il diritto di famiglia, la proprietà di abitazioni e il possesso della terra, però molto spesso non se ne sa nulla. Ad esempio, proprio mentre stiamo parlando, stanno evacuando uno dei villaggi del Negev ritenuti illegali.
Voi agite collaborando anche con le istituzioni israeliane?
Attraverso i parlamentari arabi che siedono nella Knesset e che hanno diritto all’immunità parlamentare, la comunità palestinese ha chiesto di dialogare con gli ebrei israeliani, organizzando incontri tra le parti e con i membri dell’Anp.
Com’è la vita dei parlamentari arabi israeliani?
Sono loro a pagare in prima persona il prezzo di questa lotta. È il caso dei parlamentari membri del Plc, legati ad Hamas, che sono stati arrestati dall’esercito israeliano dopo il rapimento del soldato Gilad Shalit e che sono ancora negli uffici della Croce Rossa Internazionale perché hanno ricevuto l’ordine di espulsione da Gerusalemme. O anche quello più recente della deputata araba israeliana Hanin Zuabi che ha preso parte alla Flotilla e a cui sono stati revocati il diritto di uscire dal Paese, il passaporto diplomatico e il diritto di poter disporre dei fondi della Knesset per coprire eventuali spese legali. La vita è dura anche per gli attivisti. Io stesso sono stato arrestato quando nelle scorse settimane ho cercato di visitare alcuni degli attivisti fermati dopo l’attacco a Flotilla.
E con quali motivazioni?
Perché abbiamo sfidato il divieto della autorità israeliane di recarci negli ospedali dove erano ricoverate le vittime dell’attacco. Nel mio caso si è voluto dare un segnale forte visto che sono un personaggio conosciuto. Qualcosa di simile è successo alla presidentessa del New Israel Fund, accusata di pagare per la stesura di relazioni come il Rapporto Goldstone, fortemente critico nei confronti dell’operazione Piombo Fuso, a Gaza.
Jafar Farah non si fa scrupoli nel parlare, fino a definire quello israeliano un «regime», facendo paragoni forti: «in ogni luogo del mondo dove c’è un regime, come nei Balcani o in Darfur le associazioni che si occupano di diritti umani sono le più bersagliate perché possono fornire testimonianze reali della situazione reale».