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 2010  luglio 23 Venerdì calendario

«LA VOSTRA È UNA TRAPPOLA NOI NON FIRMEREMO MAI»

A Pec le ragazze passeggiano lungo la via principale del centro, con abiti scollati, tacchi alti e acconciature vistose. Nessun velo o hijab che facciano pensare all’islam più tradizionale. Ogni tanto sfreccia qualche auto sportiva, molto più spesso una bicicletta. Niente di diverso da un qualsiasi struscio estivo. Con una differenza. Nel centro della piazza del municipio, campeggiano enormi cartelloni con la scritta Kfor e le immagini di alcuni soldati Nato. Capita così anche a Pristina o a Dakovica. Ma si potrebbe dire Peja, Prishtina e Gjakova seguendo la versione albanese. Sono i segni di una reale normalità che stenta a decollare nel Kosovo, autoproclamatosi indipendente il 17 febbraio 2008 e riconosciuto come tale da circa una settantina di Paesi dei 192 Stati membri delle Nazioni Unite. Per i serbi rimane Kosovo i Metohija, un nome che scandisce in più di un’occasione Madame Dobrilla, la portavoce del Patriarcato di Pec.
Con il suo volto segnato dal tempo e un accento che ne tradisce costantemente il passato francese, Dobrilla è l’immagine della chiesa ortodossa nella Terra dei merli, un personaggio tra il mistico e il mitico che vive dentro il Patriarcato dal 1999. Da qui osserva, ascolta e si preoccupa. Ha continui contatti con i delegati stranieri e con i nostri militari. Parla del Patriarcato «per illustrare la situazione di tutti i serbi».
Ha parole dure per le istituzioni internazionali, anche se non fatica ad ammettere che la presenza dei soldati italiani è di vitale importanza: «Sono la nostra salvezza. Ci rivolgiamo a loro per tutto, ogni volta che abbiamo bisogno di uscire. Se non ci fossero non avremmo modo di vedere ciò che accade fuori di qui». Dobrilla però sulla sovranità del Kosovo è irremovibile.«Due anni fa è venuto qui il generale de Kermabon (capo della missione Eulex, ndr)» racconta. «Ha parlato molto bene e gli abbiamo dato il nostro appoggio. Ma mi sono chiesta se non fosse una trappola per noi. Ora è chiaro che è così. La comunità internazionale vuole la firma serba sotto l’indipendenza del Kosovo, ma questo non è possibile». La posizione ufficiale del Patriarcato è questa. Anche con il nuovo patriarca Irenej, considerato più moderato del suo predecessor, la linea guida resterà immutata. Non c’è possibilità di compromesso. Il Kosovo per loro è e resta Kosovo i Metohjia, una provincia della Serbia.
Il ritorno. La guerra del 1999 ha lasciato tracce nelle pastoie burocratiche e nelle dispute catastali.
«Durante la guerra molti archivi comunali sono stati distrutti e diventa quindi difficile risalire alla proprietà delle terre. Anche se alcuni hanno portato con sé gli atti di proprietà, si procede attraverso controlli incrociati e sul campo. Si chiedono ad esempio informazioni sulla zona, sui vicini di casa, per appurare l’esattezza del ritorno».
É il progetto “Go and See Visit” di cui parla il tenente colonnello Fontana, responsabile del Cimic, la cooperazione civile-militare delegata agli italiani nella regione ovest del Kosovo. Funziona così: le varie agenzie per i rifugiati - Unhcr, Drc, Arc, Bprm - valutano le richieste di far ritorno sui propri luoghi di provenienza e i militari italiani si occupano delle faccende logistiche. In alcuni casi, tutto si riduce a rivendicazioni finalizzate alla vendita delle proprietà per poter andare via con un gruzzoletto. I kosovari albanesi invece cercano di accaparrarsi nuovi terreni perché, da che mondo è mondo, le guerre si vincono affermando la propria presenza sul territorio.
È anche per questo motivo che Padre Sava Janjic, dal 1992 abate del monastero ortodosso di Visoki Decani, teme che la regione serba si ridurrà a una sorta di meta religiosa per pellegrini. «Circa duecento mila rifugiati serbi non sono potuti rientrare. In alcune zone come Pec o Decani la nostra presenza è solo simbolica.» E dal punto di vista politico? «Sembra che non ci sia una possibilità di ricambio reale. Subito dopo la guerra il potere fu dato ai membri dell’Uck e ai loro sostenitori. È un circolo vizioso».
Tensioni mai sopite. Quella che si respira in Kosovo è una calma apparente; una situazione definita dai militari italiani «stabile, ma fragile». Le tensioni in effetti non mancano, anche se possono essere considerate la quota legittima di un’eredità difficile da spartire. Soprattutto in alcune zone simbolo della spaccatura, come la città di Mitrovica divisa in due da un ponte, il Berliner Mauer kosovaro. La parte sud è popolata da albanesi, quella nord da serbi. Attraversare il fiume Ibar significa molto spesso viaggiare in un’auto senza targa, per non tradire la propria provenienza e innescare reazioni. Solo agli inizi di luglio una serie di incidenti ha provocato la morte di un uomo e numerosi feriti. Motivo scatenante è il cosiddetto “Piano di azione per il nord” promosso dal ministro degli Interni kosovaro Bajram Rexhepi, che afferma la volontà di inviare truppe speciali della polizia kosovara a Mitrovica nord, in accordo con le missione dell’Unione europea Eulex.
La vie en rose. Difficile trovare punti di vista condivisi. Bianco o nero. E così di fronte alle preoccupazioni espresse dalla parte serba, troviamo albanesi, come Valon, guida del Museo etnologico di Pristina, che descrive la propria terra come una sorta di Eden. «Qui i serbi sono i benvenuti, le relazioni fra noi sono ottime e anche il governo (kosovaro, ndr) sta facendo molto per le minoranze. Serbi, turchi, egiziani, per noi non fa differenza». Il suo estremo ottimismo si rivela anche illustrando la parte migliore del codice Kanun, quella relativa all’ospitalità, dimenticandone le zone più oscure. Con una lente rosea ricorda i bombardamenti subiti nel 1999, assicurando che la Nato non ha mai centrato alcun obiettivo civile e che se qualcuno lo fece fu esclusivamente l’aviazione serba.
Memorie. Valon ha ventisei anni, all’epoca ne aveva circa quindici e ha assorbito tutta l’ideologia di quei tempi. La politica è ovunque nella Terra dei merli ancora contesa. La trovi al bar di Pec, parlando con un collega dell’agenzia di stampa KosovaLive, Ilir, che spiega come la distruzione di molte chiese ortodosse, dopo il 1999, sia stata una necessaria compensazione perché «erano state costruite nella fase di serbizzazione». La trovi lungo tutte le strade che attraversano i villaggi, tra icone dei militanti dell’Uck e bandiere rosse con l’aquila bicefala albanese; tra i cimiteri sparsi. Alcuni sono semplici mausolei locali, altri sono veri e propri sacrari che incarnano cicatrici mai rimarginate, come nel caso del cimitero “27 prilli”. Nelle prime ore del 27 aprile del 1999, le forze serbe fecero evacuare le donne e i bambini del villaggio di Meje, appartenente al comune di Dakovica, sferrando poi un pesante attacco contro la popolazione maschile rimasta. Oggi, è rimasta una sfilza impressionante di lapidi che recano tutte la stessa data, un monumento alla follia dell’uomo.