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 2010  luglio 22 Giovedì calendario

QUANTO VALE LO SHOPPING ESTERO SUL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

Il peso dei capitali stranieri sul debito pubblico italiano cresce costantemente dal 2006, e nel 2010 supera la soglia del 50 per cento. A dirlo è l’ultima pubblicazione relativa all’«Economia italiana in breve», diffusa ieri dalla Banca d’Italia. Per studiosi ed economisti, si tratta di un dato «strutturale», mentre per gli investitori, da sempre combattuti tra la ricerca di un investimento sicuro e l’appetito per un rendimento elevato, significa che ora l’Italia rappresenta un ottimo compromesso. Insomma, nonostante un debito pari a 1.827 miliardi di euro la tenuta italiana sembra fuori discussione. Secondo l’ultimo Financial stability review della Bce, se due anni fa la percentuale di debito sottoscritta da investitori stranieri era intorno al 40 per cento, oggi ha raggiunto quota 51 per cento, salendo nel 2009 di due punti percentuali. Se nel primo semestre dell’anno gli esperti hanno segnalato un aumento della volatilità sui debiti sovrani, fino a ieri considerati immuni dai rischi, cosa significa il progressivo spostamento all’estero di più della metà del debito nazionale?
Secondo l’ultimo Annual Report della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, diffuso a fine giugno, i Paesi in cui i capitali esteri finanziano gran parte del debito sono maggiormente vulnerabili alle ondate speculative: «se la domanda di bond a lungo termine si indebolisce», si legge nel documento, «i Governi nazionali potrebbero essere costretti a emettere prestiti a breve termine, abbassando la media dei rendimenti, alla scadenza delle obbligazioni». Per Gianluca Verzelli, vicedirettore centrale di Banca Akros «è evidente che c’è un interesse maggiore sui rendimenti, perché nell’ultimo biennio titoli benchmark come il bund hanno diminuito i loro tassi rispetto al passato». Inoltre, osserva Verzelli, «va sottolineato che, in un contesto difficile a causa della crisi greca e dei timori di contagio, l’Italia si è dimostrata un’emittente affidabile, senza scivolare nel novero dei Pigs. La manovra economica, inoltre, è tranquillizzante per un investitore che, comunque, diversifica il proprio portafoglio». Un pensiero condiviso da Alberto Zanardi, ordinario di Scienza delle finanze a Bologna: «Oggi, la sensibilità sugli andamenti internazionali dei tassi si è notevolmente intensificata».
Una cosa è certa: gli investitori istituzionali hanno molte meno difficoltà dei correntisti a liquidare le proprie posizioni sui debiti sovrani. Anche perché il piano per il salvataggio della Grecia, così come le prime indiscrezioni circolate sugli stress test, hanno dimostrato che l’effetto domino è molto pericoloso. Secondo uno studio sul rischio di credito condotto lo scorso giugno dalla Bank of England, la percentuale del debito pubblico sottoscritta da investitori internazionali, rapportata al Pil, supera il 50 per cento in Italia, Irlanda, Grecia, Portogallo e Francia, mentre Germania e Spagna si aggirano intorno alla soglia del 40 per cento. Differenziata anche la curva dei tassi: oggi il rendimento di un bund decennale è pari al 2,65 per cento, contro il 3 per cento del corrispettivo francese e il 4 per cento del Btp italiano, che ieri presentava uno spread di 135 punti base rispetto al titolo tedesco.
Alto, invece, il differenziale sul breve termine: il bond tedesco a un anno rende lo 0,50 per cento, rispetto all’1,38 per cento del corrispettivo italiano, un premio quasi triplo per gli investitori stranieri, e, contemporaneamente, un costo più elevato per le finanze nazionali. Non solo: come spiega al Riformista il responsabile Fixed income di una banca d’affari italiana, che preferisce l’anonimato, dover pagare gli interessi verso sottoscrittori non residenti influisce sui corsi valutari. Come nel caso del Giappone, dove il debito, pari al 200 per cento circa del Pil, rimane entro i confini nazionali. Le recenti ondate speculative, in Europa, rimangono dunque concentrate sui Paesi periferici, che sono costretti a ricorrere frequentemente al mercato dei capitali, come Atene e Dublino due giorni fa – con risposte incoraggianti – o Lisbona ieri, senza successo.