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 2010  luglio 31 Sabato calendario

GERUSALEMME, ORA

Nel primo pomeriggio, il sole di Gerusalemme è implacabile. Ci vogliono almeno 4 ore prima che si alzi la puntuale brezza serale e compaia la prima stella che annuncia Shabbat. Il rabbino Joseph Antebi non ha fretta. Riparato dal cappello a larghe tese degli ortodossi, accanto al minareto di Sheik Jarrah – un quartiere della zona orientale, quella araba – insegna ai piccoli pronipoti dei profughi del ‘48, a inviare e-mail. Non appena arrivano i primi ragazzi ebrei del Solidarity movement con i tamburi e gli altoparlanti, aziona la sua carrozzella rossa a motore e si unisce al gruppo di protesta. Rabi Antebi non può camminare ma alzare i suoi cartelli, con scritte in rima contro l’occupazione dei territori palestinesi dopo la guerra dei 6 giorni, questo sì lo può fare. E lo fa da molto tempo. Senza risparmio. Il suo impegno però è diventato una sorta di ossessione – non ha saltato neanche un venerdì – da quando un anno fa sono ricominciati gli sfratti dei profughi palestinesi per far posto ai coloni.
La settimana scorsa sono
riprese le demolizioni
ANCHE PER David Grossmann, Gerusalemme Est è Palestina, ed è necessario che venga restituita per diventare la capitale dello Stato Palestinese. Se mai nascerà. Da mesi loscrittorepartecipapuntualmenteallamanifestazione di Sheik Jarrah anche per un altro motivo: “Questo quartiere è un microcosmo che esemplifica chiaramente il problema ancora irrisolto dei profughi palestinesi”. Un paio di settimane fa Grossman era stato anche spintonato dai soldati israeliani, quando alcuni manifestanti avevano cercato di avvicinarsi alle case su cui pende l’ordine di sfratto. Quando Grossmann scende dal taxi in maglietta azzurra, sembra più giovane dei suoi 56 anni. Ha lo sguardo da ragazzo adulto, questa volta intento a guardare il cordone rinforzato di soldati e non le platee di lettori che si accalcano nelle librerie quando presenta un suo libro, in giro per il mondo. Il suo mondo è proprio qui e ora. “Devo esserci, come cittadino israeliano che ama il proprio Paese. Non voglio che i coloni confischino con queste case anche il nostro futuro, il futuro dei nostri figli e ci condannino a vivere in una lotta perenne, ingiusta e fatale. La questione dello sfratto dei profughi di Sheik Jarrah è la sintesi del processo distruttivo innescato dalle continuerivendicazionideicolonichenonsaranno mai sazi”. Mentre la manifestazione inizia, arriva la notizia delle dichiarazioni rilasciate dal premier e dal ministro degli Esteri Lieberman: “Il governo potrebbe cadere se allungassimolamoratoriaall’espansionedegli insediamenti nella West Bank”, ha detto Netanyahu alla radio, preceduto di poco dal suo ministro che aveva anticipato il concetto durante la conferenza stampa con il collega spagnolo Moratinos. I manifestanti, anche se pochi, anche se soli, non si scoraggiano. Urlano ancora più forte i loro slogan, anche perchè la moratoria, iniziata 9 mesi fa – scadrà il 26 settembre – non ha mai riguardato Gerusalemme Est. Molti insediamenti sono in continua espansione e la settimana scorsa sono riprese anche le demolizioni delle case palestinesi. “Lo sfratto dei profughi palestinesi di Sheik Jarrah – riprende Grossman – mostra tutta la complessità di questa fase della tragedia israelo-palestinese. Queste famiglie sotto sfratto stanno subendo una doppia ingiustizia. Non possiamo permetterlo”. L’anziano psichiatra Itzhak Leval, anche lui dritto sotto il sole spietato, sottolinea che permettere altri sfratti dei profughi di Gerusalemme Est significa rinunciare a dirimere la questione ancora aperta del ritorno dei profughi. “Se lasciamo che i profughi, a cui sono state già sottratte una volta le loro proprietà, vengano nuovamente cacciati, comprometteremmodefinitivamentelapossibilitàdiunaconvivenzapacificatraisraelianie palestinesi”. Mohammed Sabbagh mostra sul cellulare le foto delle terre e del bel palazzo di proprietà della sua famiglia a Tel Aviv. In mezzo secolo di vita da profugo a Skeik Jarrah è tornato a vederle decine di volte ma ha smesso da quando con il suo nutrito gruppo familiare – 41 persone tra fratelli, mogli, cognati e nipoti – l’anno scorso ha ricevuto l’ordine di sfratto da una casa senza intonaco costruita dall’Onu.
500 persone temono
di perdere la loro casa
A RISCHIARE di dover lasciare le case affittate loro dalla Giordania nel ’48 sono circa 28 famiglie (500 persone circa). Alcune, come i Gazawi e gli Hanoun (circa 60 persone in tutto comprese donne e bambini) erano già state cacciate la scorsaestate.Dopomesipassati sotto una tenda di frontealleloroexcase,si sono rassegnati e hanno affittato casa nell’area del campo profughi di Shu’fat. “Ma da Gerusalemme Est non ce ne andremo – dice Ibraim con la tranquillità di chi non ha più nulla da perdere – questo è certo”. Inizia a soffiare la brezza fresca che precede il tramonto quandoDaniel,ungiovane medico ebreo, che si batte per il rientro di Israele nelle frontiere precedenti al ’67, mi avverte che possiamo andare a Baten El Hawa. È un quartiere arabo, poveroedensamenteabitato, sulla collina non molto distante dalla spianata delle moschee. Dovremmo passare la notte presso la palazzina della famiglia Abu Nab che vive da mesi nel terrore di finireinmezzoaunastrada.Daqualchegiorno i coloni che vogliono andare ad abitare nella loro casa, spalleggiati dalle loro guardie armate, hanno di fatto dato l’ultimatum alle forze di sicurezza israeliane, che ancora non l’hanno eseguito lo sfratto.
Secondo i coloni non è più tollerabile che le forze dell’ordine continuino a posticipare l’applicazione della sentenza della corte israeliana che ha dichiarato legittimo lo sfratto dei palestinesi. “Forse questa notte i soldati israeliani ci riproveranno ed è per questo che bisogna essere lì – mi spiega il giovane internista – perchè noi ebrei vogliamo la giustizia, e dobbiamo testimoniare la follia di questa violenta ebreizzazione di Gerusalemme Est. Grazie alla politica di ministri come Netanyahu e Lieberman, la vita di tutti gli ebrei israeliani, la mia, quella dei miei familiari è in balia dell’oltranzismo dei coloni e dei loro ricchi finanziatori. Ora i coloni riescono a impartire ordini anche ai soldati israeliani. Li ricattano dicendo che se nonprocederannoallosfratto,lofarannoloro con la loro scorta armata, pagata anche dallo Stato e perciò da me. Quella non è una scorta,èunamiliziaoffensivaailoroordini”, puntualizza Daniel.
Il soldati cercano di
evacuare una palazzina
NELLA NOTTE del 26 giugno scorso, tra i vicoli stretti e maleodoranti di Baten El Hawa, i soldati dell’Idf avevano cercato di evacuare la palazzina. A quel punto si era scatenataunaveraepropriabattagliaperchèad aspettare i soldati, assieme alla famiglia Abu Nab, c’erano decine di vicini. A esasperare gli animi delle famiglie palestinesi che hanno ricevuto l’ordine di sfratto, contribuisce la vista quotidiana di un palazzone di sei piani chiamato “casa di Jonathan”. Da mesi la Corte israeliana ha emesso un ordine di demolizione per questo cubo di cemento costruitoeabitatodaicoloni.Pertuttarisposta però, lungo le pareti, sono stati calati paramenti dai colori bianchi e blu dello Stato israeliano. I coloni amano celebrare pubblicamente, allestendo questi vistosi altari alla colonizzazione, le loro provocazioni. I soldati e i poliziotti che dovrebbero stanare i palestinesi sono gli stessi che dovrebbero cacciare dalla “casa di Jonathan” i coloni, combattendo contro la loro milizia privata. Gli stessi soldati che ora vediamo schierati, con le guardie private dei coloni, a presidiare la casa degli Abu Nab. Ormai è chiaro: sto per trascorrere una notte in un altro microcosmo di follia che esemplifica alla perfezione, come scrisse per l’appunto Grossman, “la tragedia di due popoli che stanno precipitando assieme, stretti in un abbraccio mortale, verso l’inferno”.
Questa zona di Gerusalemme Est non ha nulla da invidiare ai quartieri disastrati sorti attorno al campo profughi di Anata nell’area C della West Bank: l’area ancora sotto il controllo pieno delle forze armate israelianemadimenticatadatuttiperquanto riguarda servizi e infrastrutture. Ora che il sole è tramontato definitivamente, e le luci delle lampadine abusive sono intermittenti,lesagomedeisoldati,chesimuovono furtivetraitetti,nonsidistinguonodaquelle della milizia dei coloni. Dietro un angolo vedo spuntare un’ombra. All’ombra segue un uomo con un passamontagna e un M16 a tracolla. Si sentono dei rumori provenire dalla casa di Jonathan. Un giovane colono armato con la kippah in testa e i riccioli lunghi si affaccia da una finestra e subito rientra. Jasmine, da sotto il velo che si chiude strettoattornoalmento,midiceinperfetto inglese che in questi giorni dentro quella casa, sono stati portati dei mobili. “Abbiamopaurachesiaarrivatoilmomento.Quei mobili forse servono agli altri coloni che verranno ad abitare nelle nostre case”.
“Noi ebrei ci dobbiamo
opporre agli sfratti”
NONOSTANTE tutti facciano finta di nulla, la tensione si taglia con il coltello. Arrivare qui non è stato facile e l’idea di sostenere un’irruzione dei soldati non è allettante, visti i precedenti. “Sono disposto però a fare da scudo contro le azioni terroristiche dei coloni e delle loro guardie armate”,diceEyal.“Finoachenoiebreiverremo quaaopporciaglisfratti,inostrisoldatinon oseranno entrare”. Non tutti ne sono sicuri ecomunquelaprospettivadisentireanche solo l’odore dei lacrimogeni non è piacevole. Si può morire anche se si viene centrati in volto da una pallottola di gomma, che entra dalla finestra, perchè l’anima è di acciaio. È già successo, un ragazzo palestinese è morto e una attivista ebrea ha perso un occhio, durante le manifestazioni contro la costruzione del muro a Bi’lin in West Bank. Mentre entriamo nella casa della famiglia Abu Nab, la brezza fresca si trasforma in un vento freddo. L’escursione termica notturna del deserto arriva fino a qua. Le bandiereisraelianesuitettidiJohnatan’shouse schiaffeggiano il buio, solitarie. Se i coloni riuscissero a prendere anche questo salonedisadornodoveorasediamo,bevendothe,altrebandiereisraelianefinirebbero sui tetti palestinesi e potrebbero iniziare a fare un rumore troppo fastidioso. Non solo alle orecchie arabe. Secondo alcune fonti, l’amministrazione municipale di Gerusalemme avrebbe bloccato l’evacuazione della casa per evitare di procedere all’evacuazione dei coloni dalla casa di Jonathan. Secondo altre, lo sfratto dei miei ospiti non avviene perchè gli americani lo vivrebbero come un ennesimo tentativo degli israeliani di predicare bene e razzolare male. Dagli Usa avrebbero fatto sapere di essere contrari anche alle demolizioni delle case palestinesi ricominciate due giorni dopo il rientrodiNetanyahudaicolloquiriparatori del7luglioaWashington.Albeggiaquando con Daniel lascio la casa. La notte è passata senza la temuta irruzione. I soldati con le armi spianate e le guardie con le pistole alla cintola sono rimaste appostate sui tetti. Continuano a scrutarmi dalla fessura dei passamontagna anche mentre chiudo la portiera dell’auto che mi porterà a Ramallah dove ho un appuntamento presso il dipartimento economico del primo ministro palestinese, Sallam Fayad.
In viaggio verso Ramallah,
sfidando i check point
DEVO INCONTRARE Haitam Kayali coordinatore della campagna di boicottag-giodeiprodottirealizzatinegliinsediamenti ebraici della Cisgiordania. La campagna è stata chiamata “Karama”, che in arabo significa “dignità”. Il viaggio sarebbe dovuto essere breve: il tragitto tra Gerusalemme e Ramallah è nell’ordine di poche decine di chilometri. Il tassista è palestinese e quindi può entrare in West Bank ma questa volta a bloccarcinonsonoisoldatidiguardiaainumerosi check point che bisogna passare, con passaporto alla mano, da quando è stato alzato il muro nel 2004. A ostacolare il nostro tentativo di raggiungere la zona dei ministeri di Ramallah sono una cinquantina di coloni che protestano per la demolizione di alcune case da loro costruite in questi mesidimoratoriael’ipotesidiun’imminentechiusuradiunayeshiva,istituitadopoaver sottratto illegalmente un appezzamento di terreno nel villaggio di Yitzhar. Urlano che impediranno l’estendersi della moratoria. I soldati israeliani intervengono per bloccare le proteste solo quando un colono furibondo c’entra con una pietra l’auto di un palestinese. Del resto non è difficile individuare le auto dei palestinesi: hanno la targa verde e sono sempre più numerose. Il sensibile aumento delle vendite di auto nei Territori è stata definita dal alcuni giornali arabi “l’intifada delle auto”.
Da quando il premier dell’Anp, Salam Fayyad, ha imposto alle banche di concedere prestiti agevolati sugli acquisti di beni e immobili, è stato registrato un immediato boom nella vendita di utilitarie. La politica di miglioramento economico della West Bank istituita da Fayad non si limita a misure di agevolazione finanziaria. “La campagna di boicottaggio dei prodotti realizzati nelle colonie ebraiche – sottolinea Abir Kapty, una delle portavoci del dipartimento economico, nel suo ufficio di Ramallah – non è da interpretare come un atto di ostilità nei confrontidiIsraelemasolodeicoloni.Èperò soprattutto il tentativo di incentivare le nostre potenzialità come imprenditori agricoli e mettere a frutto la nostra abilità commerciale. Con 200 mila disoccupati su una popolazione di circa 4 milioni di persone, abbiamo il diritto e dovere di provare a sviluppare una forza lavoro solida e indipendente,ancheperchèdobbiamotrovare il modo di sfruttare questo momento favorevole per la nostra economia”. La crescita economica della West Bank, lo scorso anno si è attestata intorno al 7%. “Indipendentemente dal risultato del boicottaggio, sul lungo periodo, era inevitabile provarci: il do ut des è troppo sbilanciato a favoredeicoloni”,puntualizzanodaldipartimento. Infatti, a fronte di 25mila palestinesi impiegati nelle aziende dei coloni, la vendita dei loro prodotti nella sola West Bank,fruttapiùdi300milionididollari.Domandoperchèilboicottaggiosiastatomesso in atto solo ora: Kayali, il coordinatore, rispondeconunsorrisosenzaparole.Stadi fatto che Fayyad ha incaricato decine di controllori di andare a sorpresa nei negozi e bancarelle a verificare se le nocciole e le tende – tanto per citare i primi nomi della black list – in vendita, provengano davvero solodacoltivazionipalestinesi.Comproun sacchetto di frutta secca: non sapendo l’arabo,mifidodelleconfermedellamiaaccompagnatrice, Majd Beltaji, che lavora per l’Onu. Le nostre mete ora sono Rawadi e Al Reeham, due villaggi in costruzione, pensati per giovani professionisti palestinesi. Dalla presentazione sui siti internet delle società di costruzione questi villaggi, per “chi vuole vivere in un ambiente architettonicamentecuratoeconfortevole”con tanto di centri fitness e negozi all’occidentale,sembrerebberoultimati.Trovarlirisulta un’impresa. A Rawadi non riusciremo ad andare perchè la strada è interrotta. Ad Al Reeham non troviamo nessuno perchè le case sono solo scheletri di costruzioni bruciate dal sole. Per ora anche un semplice albero sotto cui godere di un po’ d’ombra è solo una promessa del web.