Giampiero Mughini, Libero 31/7/2010, 31 luglio 2010
LA DOLCE ITALIETTA DI CROCE
Centocinquanta anni fa, al momento dell’avvenuta Unità d’Italia, molti osservatori internazionali la giudicarono un capolavoro politico che aveva del miracoloso. Mai era esistitita nella storia un’entità politico-istituzionale chiamata Italia, neppure al tempo in cui le armi e la cultura di Roma imperiale modellavano il mondo. E a parte la presenza nel cuore dello stivale di un Vaticano con cui la neonata Italia doveva fare i conti politici e simbolici, la leadership post-risorgimentale del 1860 aveva innanzi a sé compiti immani da assolvere nel più breve tempo possibile.
A cominciare dal pareggio del bilancio pubblico, un bilancio che da un rosso di due miliardi dei primissimi anni dell’Unità era salito a ben otto miliardi in poco tempo, e ci volle tutta l’energia morale e politica degli uomini della Destra storica per riuscire a pareggiare i conti: già nel 1876. E poi c’era che il nostro Paese era piccino piccino in fatto di fabbriche e di produzione industriale moderna, che nel 1861 il 78 per cento degli italiani era analfabeta, che in tutto e per tutto l’Italia disponeva nel 1860 di 1.758 chilometri di rete ferroviaria, che quando l’esercito italiano andava in battaglia i fanti siciliani non comprendevano i comandi che davano loro gli ufficiali piemontesi.
Bestseller entrato nel Dna della coscienza nazionale
È qui, dall’orgoglio dei compiti assolti da una generazione politica d’eccezione, che prende le mosse un libro di Benedetto Croce di quelli che sono entrati nel Dna della coscienza nazionale. Pubblicato da Laterza, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, esce in prima edizione nel 1928, quando il 62enne Croce ha alle spalle un curriculum e una bibliografia già immani. Nel più completo catalogo antiquario mai dedicato alle sue opere, la Storia d’Italia figurava in ordine cronologico al 137° posto. Il 1928, sei anni da quando Benito Mussolini era divenuto capo del governo e tre da quando il fascismo aveva affondato il suo tallone prepotente sul corpo della nazione, e anche se nel libro di Croce non una volta compare la parola “fascismo”.
Agli occhi delle élite intellettuali borghesi e liberali del primo quarto del Novecento il filosofo di Pescasseroli aveva il carisma e il ruolo di un capintesta intellettuale: «Egli non si era formato nell’ambiente dannunziano di eccitata modernità industriale e cupida e gaudente, ma si era attardato nelle memorie e negli esempi degli uomini del Risorgimento e nei pensieri del classico idealismo, nutrendosi dapprima dell’insegnamento del De Sanctis, del quale non era stato scolaro nella scuola ma verso cui fu più attento ascoltatore, con tutte le forze dell’intelletto e con tutta l’anima, che non gli scolari della scuola». Così si autoracconta Croce nella Storia d’Italia. Fin da subito il libro andò molto bene quanto a copie vendute. Quando da studente universitario degli anni Sessanta ne comprai una copia in una libreria carica fino al soffitto di libri rari e usati, quella era un copia stampata nel maggio 1929 su cui figurava la dizione “quarta edizione”. Quattro edizioni in poco più di un anno.
Sto facendo un’eccezione all’intento da cui è nata questa mia serie di “libri che non avevo letto”. La Storia d’Italia l’avevo letta poco più che ventenne e annotata con tanto di righello e matita rosso e blu, il rosso a scandire i brani più importanti. È un’eccezione per modo di dire, perché un classico lo devi leggere tutte le volte che puoi, e il me stesso di adesso con tanto di capelli bianchi ha poco da spartire con lo studente 22enne o 23enne che aveva ricoperto di segni rosso e blu il magnifico libro di Croce. E poi c’è il fatto che in questi ultimi anni s’è caricata di fiele la discussione se ne fosse davvero valsa la pena costruire l’Unità d’Italia, se si fosse mai realizzata nei fatti quell’Unità di «un paese troppo lungo» (per usare il titolo di un recente libro di Giorgio Ruffolo). Una discussione acre che al Croce del 1928 sarebbe apparsa una bestemmia contro i padri fondatori della moderna identità italiana. E non che a lui sfuggissero le spine dell’unificazione politica, le sue dolorose contraddizioni: «Comparativamente sfavorita fu l’Italia meridionale che, a giudizio ormai concorde dei competenti, dall’unificazione dei debiti pubblici, dalle alte imposte, dalla messa in vendita dei beni ecclesiastici, ebbe assorbito gran parte del suo non molto capitale, mentre all’industria del settentrione, più ricco per natura e per ragioni di storia civile, vieppiù arricchito per concentrazione di uomini e di amministrazioni e di lavori richiesti dalla difesa militare, si apriva un mercato nel mezzogiorno, nel quale sparivano di conseguenza le industrie locali e quella domestica».
Innanzitutto, lo stile del Croce, la sua composizione di un libro che nasce come saggio storico e finisce per fluire e scorrere alla maniera di un romanzo. Lui ci lavorava ogni volta a lungo, scavava i materiali della sua immensa biblioteca, da “tuttologo” intemerato e sapiente leggeva di tutto i romanzi come i testi di filosofia politica e come le relazioni delle commissioni parlamentari -, poi metteva ogni documento e studio precedente da parte e cominciava a scrivere.
Scriveva, diciamo così, a memoria, senza mai usare le virgolette, senza mai appoggiarsi in corso di narrazione a una nota o a una puntualizzazione erudita. (Le accuratissime sue “annotazioni” erano in fine di volume e vi occupavano intere 30 pagine). Tutto era racconto, vita, turbinio di idee e uomini e fatti drammatici. A cominciare dal fatto che il nuovo Stato subito si slanciò in guerra a recuperare chiazze di italianità che erano ancora sotto il tallone austriaco, ossia il Veneto, e subito arrivarono le disfatte militari del 1866 a Custoza e a Lissa. Disfatte tanto più umilianti in quanto subite da un avversario numericamente inferiore. Nasce lì il complesso di inferiorità italiano in fatto di guerre combattute e mai vinte, un complesso che sarà accentuato dai successivi disastri coloniali di Dogali e di Adua, e che farà da spinta propulsiva a cercare una rivalsa, a entrare in campo nella Prima guerra mondiale come a mostrare che gli italiani sanno battersi. Un voler dimostrare di sapere battersi che il fascismo esasperò con la sua retorica sugli «otto milioni di baionette», con tutte le sventure che ne vennero in una Seconda guerra mondiale dove l’esercito italiano non vinse una sola battaglia da quanto era tecnologicamente inferiore agli avversari.
La rivoluzione industriale a cavallo tra i due secoli
Tutto ciò che è della vita e della politica del Novecento nasce in quel torno di anni a cavallo tra i due secoli. È il tempo della prima rivoluzione industriale, quella che scaraventa il Paese fra le nazioni moderne. Ne vengono, come diretta conseguenza, il Partito socialista e le organizzazioni sindacali e i ribollimenti popolari contro condizioni di vita talvolta allo stremo (“Se dodici ore vi sembran poche”) contro i quali la reazione di polizia è spietata, come nel caso della vera e propria carneficina ordinata a Milano nel 1898 dal generale Fiorenzo Bava Beccaris.
Nascono figure inedite di protagonisti che scorrazzano a metà strada tra l’arte e la politica e la capacità di eccitare la piazza, dico Gabriele d’Annunzio, quello che in Parlamento era indicato come «il deputato della Bellezza», uno da cui imparerà molto lo stesso Benito Mussolini. Nascono i grandi quotidiani fatti a orientare l’opinione pubblica, primo fra tutti il milanese Corriere della Sera.
Era un’“Italietta” che cresceva e si rinvigoriva, e per quanto fragili fossero i piloni su cui poggiava e reggeva il suo equilibrio. Maestro nel conservare quell’equilibrio fu Giovanni Giolitti, uno statista che dové zigzagare a lungo tra socialisti che riluttavano a ogni impegno di governo, cattolici tuttora risentiti di un’Unità d’Italia avvenuta al prezzo della confisca del patrimonio ecclesiale, liberali che chiedevano un’alleanza con la Francia e altri liberali che volevano conservare i patti stipulati con l’Impero austroungarico. E finché venne il tempo atroce della guerra, una guerra che spazzò via 600mila vite italiane, ma che soprattutto spazzò via un intero mondo politico. Il secolo entrava nella sua fase più spaventosa. Ma questa è un’altra storia, diversa e successiva da quella narrata da Croce.