Giuseppe Parlato, Libero 31/7/2010, 31 luglio 2010
FASCISTI DI CELLULOIDE
Il cinema come memoria di una nazione. Non come memoria asettica e storicizzata, ma come memoria contemporanea, nel senso che nulla come il cinema ha rappresentato la storia con gli occhiali, talvolta deformanti, della contemporaneità. Il caso del fascismo è forse il più evidente. Sono circa 150 le pellicole girate in Italia tra il 1945 e il 2001 che hanno per argomento il Ventennio. Non moltissime, ma comunque già un significativo campione che un giovane ricercatore, Mauro Zinni, si è incaricato di analizzare in una ricerca ben riuscita: Fascisti di celluloide. La memoria del ventennio nel cinema italiano (1945-2000), uscito per Marsilio (pp. IX-340, euro 32).
Preceduto da una densa introduzione di Luigi Goglia, uno degli studiosi più attenti al rapporto tra cinema e storia, che da anni ha messo a disposizione degli studenti romani un’importante documentazione filmica e iconografica a carattere storico, il volume di Zinni articola in varie fasi cronologiche il rapporto fra cinema e fascismo.
Il primo problema che emerge è la constatazione che la maggior parte di coloro che operarono nel cinema dopo la guerra si erano formati nei vari Cine Guf o in altre strutture del regime e che quindi avevano perfettamente compreso l’importanza che Mussolini aveva attribuito alla pellicola («l’arma più forte») non soltanto nella propaganda ma soprattutto nella formazione del «nuovo italiano». Costoro si ritrovarono nel Pci, l’unico partito che sembrava interpretare le prospettive rivoluzionarie di un certo fascismo.
Sicché, tra il 1945 e il 1948, vi fu una prima esplosione di film sul fascismo (se ne girarono ben 16, a cominciare da “Roma città aperta” e “Paisà”); si trattava di trasformare in passato un presente ancora ingombrante: pensiamo a “Napoli milionaria” o, soprattutto, ad “Achtung banditi” di Lizzani.
Negli anni del centrismo degasperiano vi fu un raffreddamento: pochi film e non tutti da ricordare. Il dilemma di moda era quello tra comunismo e anticomunismo, ben più importante di quello tra fascismo e antifascismo; per altro, quest’ultimo, diventava sempre più scomodo, via via che i fascisti venivano riammessi nella pubblica amministrazione e nella società civile e riassorbiti dai partiti di governo, in particolare dalla Dc. In questo contesto rimangono significativi “L’arte di arrangiarsi” di Zampa e “Cronache di poveri amanti” di Lizzani, entrambi del 1954 e, interessante dal punto di vista della ricostruzione storica, “Il generale della Rovere” di Rossellini, del 1959.
In questo modo si inizia a intravedere la trama dell’intera vicenda. Il cinema voleva rappresentare il fascismo, ma il condizionamento delle vicende politiche contingenti fu sempre forte. Per cui vennero messi in luce alcune caratterizzazioni del fascismo piuttosto che altre. Due i riferimenti: fascismo barzelletta, oggetto di satira, o fascismo sanguinario totalmente lontano da ogni barlume di umanità: capofila, per questa ultima categoria, “La lunga notte del ’43” di Vancini.
A dimostrazione di quanto la componente ideologica fosse forte nell’Italia tra gli anni ’60 e ’80, la rappresentazione del fascismo diventò funzionale ai progetti politici più o meno rivoluzionari del momento. ConifattidiGenova del 1960, il cinema entrò a pieno titolo nella rappresentazione dell’antifascismo militante, mentre, dieci anni dopo, la sinistra radicale volle identificare il fascismo con la Dc, con i partiti borghesi e persino con lo stesso Pci, rei di avere tradito la Resistenza. Il fascismo perdeva così i suoi connotati storici per diventare l’essenza della “non umanità”, contrapposta a una umanità che avrebbe ritrovato se stessa solo attraverso un processo rivoluzionario, destinato a travolgere le strutture del passato. Sporadicamente negli anni ’60, e poi in maniera più convinta, emersero però due filoni del tutto nuovi: da un lato, l’assoluzione del fascista inconsapevole, del comune cittadino costretto a manifestare la propria adesione al regime per necessità o per quieto vivere (pensiamo alla splendida rappresentazione di Totò in “Siamo uomini o caporali?” e in “Destinazione Piovarolo”); dall’altro, la caratterizzazione del fascista convinto e in buonafede, magari ottuso ma non vigliacco e a suo modo generoso: è l’immagine che venne resa per la prima volta da Tognazzi ne “Il Federale”, che, proprio per questi motivi, suscitò polemiche a non finire a sinistra, rompendo un cliché nel cinema impegnato. In questo quadro, appaiono significative le considerazioni dei critici cinematografici della sinistra, pronti a gridare allo scandalo se una pellicola rappresentava un fascista “ragionevole” o dotato di elementi di umanità, ovvero se si ipotizzavano, fra le righe, momenti di pacificazione o di superamento della guerra civile. Il modello fascista doveva essere assolutamente negativo, in un’ottica pedagogica, dalla quale dovevano emergere le motivazioni per continuare la lotta; tutto ciò che si discostava da questo schema era considerato non solo negativo ma connivente con il risorgente fascismo. In questa condanna, non furono risparmiati, dalla critica più impegnata, neppure quegli storici che intendevano dare del fascismo un’immagine non condizionata dalle ideologie e dalla politica, primo fra tutti, ovviamente, Renzo De Felice.