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 2010  luglio 31 Sabato calendario

Gli animali come non li avete mai visti - Trentaseistorie di animali riunite in un uni­co volume. “ Quello che gli animali non dico­no“ racconta episodi vissuti in prima perso­na dall’autore, Oscar Grazioli, medico vete­rinario e giornalista pubblicista

Gli animali come non li avete mai visti - Trentaseistorie di animali riunite in un uni­co volume. “ Quello che gli animali non dico­no“ racconta episodi vissuti in prima perso­na dall’autore, Oscar Grazioli, medico vete­rinario e giornalista pubblicista. I protagoni­sti non sono solo cani e gatti, ma anche caval­­li, scimmie, rettili e tanti altri ancora. Accon­to alle storie dei tradizionali animali dome­stici appaiono infatti quelle di casi unici e particolari. Le vicende si intersecano con i loro proprietari e vengono descritte dal pun­to di vista privilegiato dell’autore, chiamato a mettere a disposizione le sue conoscenze mediche. Oscar Grazioli è stato, infatti, uno dei primi veterinari, in Italia, a occuparsi dal punto di vista scientifico delle malattite di animali inconsueti. Esplicativa è la chiu­sura della prefazione: «Dicono che fare il me­dico sia una missione. Francamente non lo so, ma se è vero, anche fare il veterinario è una missione, come lo è vivere questa vita, qualunque mestiere si faccia. Purchè sia “dalla loro parte“». “Quello che gli animali non dicono“ è pubblicato dalle edizioni “L’Età dell’Acquario“. Questa è una delle trentasei storie, intitolata “Sansone“. Pochi giorni a Pasqua. Improvvisamente suona il telefono… Avete mai sentito un telefono suonare non im­provvisamente? Per la verità a me è capitato una volta. Erano tre ore che guardavo la cornetta e lei doveva tele­fonare. Squillò il telefono non improvvisamente e lei mi disse: «Ho deciso di no, punto e basta». Ma questa è un’altra storia. «Pronto… dottor Grazioli? Ehm… tele­fono da ***. Avrei il mio pito­ne gravemente malato… an­zi, secondo me sta moren­do. Si contorce come un ser­pente – “bello sforzo!“ –, cioè… no… nel senso che sembra che abbia le convul­sioni. Si sbatte di qui e di là, trema tutto e sembra che ab­bia l’epilessia. Cosa posso fargli?» Se non ci credete e pensa­te che, questa volta, stia esa­gerando, vi invito a passare qualche giorno nel mio stu­dio. Telefonate come questa sono all’ordine del giorno per chi ha scelto di occupar­si professionalmente anche di animali d’affezione un po’ meno ordinari,come ap­punto i rettili. Ricordo, an­cor oggi, la telefonata di un signore di Trieste che, qual­che anno fa, mi chiedeva un consulto per un ragno che, a suo dire, non stava bene. Nella mia vasta biblioteca scientifica avevo alcuni arti­coli, inglesi soprattutto, sul­le principali malattie dei ra­gni e avrei forse potuto esser­gli d’aiuto.Una volta appura­to che si trattava di una Lyco­sa raptoria brasiliana, dota­ta di un caratterino nervoset­to e di un potentissimo vele­no, manifestai all’amabile interlocutore un grande rammarico per la mia totale incompetenza in quel cam­po, e declinai l’invito. Mi rin­graziò molto quando gli for­nii l’indirizzo di un veterina­rio britannico che aveva scritto alcuni articoli sulla patologia dei ragni. Era già pronto a partire per Londra. Quello che mi lascia­va perplesso, circa la situa­zione del pitone, era il fatto che le malattie neurologi­che, nei serpenti, sono piut­tosto rare e non avevo mai vi­sto un caso di epilessia, ma­l­attia certamente molto diffi­cile da diagnosticare, a me­no che non si trovi un serpen­te che si lasci fare un elettroe­n­cefalogramma senza prote­stare. La voce, che giungeva chiaramente da un telefoni­no, era giovanile, con un ac­cento che avrei detto marchi­giano o abruzzese. «Lei da dove viene?» chie­si, come sempre incuriosito dall’origine geografica dei miei interlocutori. «Da Rovi­go » rispose il giovane. «Im­possibile! » dissi io. «Come, impossibile?» rispose lui, un po’ contrariato. «Sto facen­do il militare a Rovigo. Saprò bene dove sono, no? Ma non possiamo parlare del mio pi­tone che sta malissimo? » Sot­toposto a un veloce interro­gatorio, il milite ammetteva di avere cosparso Sansone, questo il nome del pitonci­no reale, con il liquido eroga­to da una bomboletta spray, avendo notato, fra le sue squame, alcuni piccoli ospi­ti neri che viaggiavano a velo­cità pericolosa. Il prodotto utilizzato era a base di estrat­ti di piretro e quindi effettiva­mente a bassa tossicità: l’unico problema era che, fra gli eccipienti, oltre all’on­nipresente piperonil- butos­sido, c’era anche una notevo­le concentrazione di aceto­ne. «Ma quante spruzzate gli ha som­ministrato? » chiesi. «Ecco, adesso le spie­go come ho fatto… anzi, co­me mi hanno detto di fare. Cioè, io ho chiamato dove l’ho preso, al negozio, e mi hanno detto di dargli questa bomboletta, mezza sul ser­pente e mezza dentro il terra­rio, sa, per disinfettare tutto. Dopo due ore ha cominciato ad avere questa specie di at­tacco epilettico… Ma faccia­mo presto, secondo me sta proprio morendo. Guardi, io sto prendendo l’autostra­da in questo momento. Fra un paio d’ore sono a Reggio Emilia.» Dopo neanche un’ora e mezza avevo in sala d’aspetto tre ragazzi, una ce­sta con dentro il pitone e una cliente con un volpino, la quale, dopo aver soddisfatto la sua curiosità sul contenu­to della cesta, aveva pregato i ragazzi di avvertirmi che sa­rebbe tornata l’indomani. «Tanto - aveva pregato i ra­gazzi di riferire al dottore ­ero venuta per una scioc­chezzuola. E poi mi è venuto in mente che forse non ho chiuso il rubinetto del gas». Sansone era in preda a una grave crisi convulsiva e peggio ancora respirava a bocca aperta, segno che il prodotto volatile, oltre a es­sere stato assorbito dalla pel­le, era stato inalato anche dai polmoni, danneggiando la fragile struttura di questi organi respiratori. Il proprie­tario era un giovane origina­rio della provincia di Peru­gia. Era umbro dunque e non marchigiano, ma mi ero sbagliato di poco, perché il suo paese confinava con Fa­briano che è già nelle Mar­che. Si trovava in servizio di leva a Rovigo e le sue condi­zioni economiche non era­no certamente floride. Ma come si fa a lasciare un piton­cino di pochi mesi, pratica­mente un «bebè», in quella situazione? Non essendoci un vero e proprio antidoto non pote­vo che ricoverare Sansone, bloccargli le convulsioni, con l’universale Valium, os­sigenarlo, tenerlo al caldo, reidratarlo e… sperare. Dopo quarantott’ore di ri­lassamento muscolare, il to­no cominciava a riattivarsi e le scosse convulsive a farsi sempre più rare. Una sana alimentazione con Gatora­de all’arancia, somministra­t­o forzatamente con una son­da, completava la terapia in­tensiva. Non è pubblicità! Non ho mai assaggiato que­sta bevanda corroborante, ma garantisco che, per i retti­li, fa miracoli ed è citato an­che sui sacri testi di erpetolo­gia. Dopo tre giorni i ragazzi tornavano a riprendersi San­sone, migliorato, ma non an­cora completamente fuori pericolo. Dopo cinque gior­ni il giovane militare umbro, quasi marchigiano, mi chia­mava, augurandomi Buona Pasqua anche da parte di Sansone, che si era comple­tamente ripreso. E gli erano anche sparite le bestioline che correvano a velocità proibita tra le squame. Su questo ci avrei giurato! Con­fesso, non ci ho guadagnato molto per questa prestazio­ne, ma vi garantisco che sen­tire al telefono un serpente che vi sibila «Buona Passss­squa » è decisamente più gra­tificante di qualunque cifra.