DOMENICO QUIRICO, La Stampa 31/7/2010, pagina 19, 31 luglio 2010
Grenoble assediata dalla rabbia dei voyou - Grenoble è una città diluita, dà un senso di ampiezza
Grenoble assediata dalla rabbia dei voyou - Grenoble è una città diluita, dà un senso di ampiezza. Le sue case non tolgono vastità al cielo. È spaziosa, lievemente afosa, col fiume che porta il profumo della montagna vicina liquefatto nell’aria. Scendi dal Tgv con negli occhi la campagna già ritagliata in quadri per il pittore paesaggista. E’ rimasto, davvero, un po’ di Stendhal qui: provincia, certo, ma non comoda, golosa, assente, conservatrice per il timore di essere disturbata nel cervello e nel corpo come molta provincia francese. Villeneuve è a un passo da tutta questa delizia, ti porta un comodo tranvai: a spazzar via subito l’alibi che ascolti come una giaculatoria tutte le volte che si parla di emarginazione e di banlieue, ovvero che il peccato originale è nella separazione geografica dall’altra città, quella dei ricchi dei normali dei buoni. Villeneuve è la «cité», lo scheletro nell’armadio di Grenoble. Dove la polizia deve proteggere la polizia, perché si siglano «contratti» come nel Sud America delle gangs per «lo scalpo di un flic», è scritto proprio così. Alcuni poliziotti della brigata anticrimine sono fuggiti, per paura, con le famiglie. Vogliono «ristabilire l’equilibrio», i giovani banditi della cité. «Un agente - una pallottola» leggi sui graffiti tracciati sugli edifici pubblici. Solo che sotto ci sono anche nomi e cognomi e i numeri di identificazione di quelli da abbattere. Qui è provincia, si conoscono tutti, cacciatori e prede, banditi e sceriffi. Si cerca la vendetta: «uno di loro» è stato ucciso dagli agenti dopo una rapina in un casinò. Sparava con un mitra, la cagoule in testa, il giubbotto antiproiettile, una sacca con il bottino a fianco. Come nei film. Ed è un icona, un eroe. I «méchants», i cattivi, sono gli altri, i «Robocop». Perché la polizia non è lo Stato, l’autorità, la giustizia, è una banda rivale con cui fare i conti in termini di forza e di brutalità. Non è una leggenda, mi garantiscono: a Villeneuve con 200 euro puoi comprare un fucile d’assalto. Costa meno che al mercato di Mogadiscio, Somalia, Paese senza Stato senza polizia senza nulla. Un Uzi come quello che hanno appena trovato nella cantina di un bar: sopra servivano caffè e birra, sotto c’era il poligono dove ci si allenava a sparare. Puoi trovare e comprare qualsiasi tipo di droga, nella cité, è un supermercato degli stupefacenti, cannabis eroina cocaina. Per il guadagno di una settimana dei caid che controllano il traffico gli agenti del fisco, spediti da Parigi ad affiancare la polizia nelle indagini, devono lavorare tutta la vita. Nelle vie di Villeneuve le auto parcheggiate sono vecchie, stazzonate. Poi, ogni tanto, una Porche Cayenne lucida di concessionario: prezzo centomila euro. Grenoble, la provincia tranquilla: con venti omicidi in due anni negli scontri tra le mafie per il controllo dei traffici. Villeneuve ti regala un senso vagamente ansiogeno, credi di aver sbagliato posto. Sì, ci sono tetri, cinerii contrafforti di cemento, torri e castelli, gusci mostruosi che si allungano, si intrecciano: una fortezza, vagamente sbrindellata e minacciosa, claustrofobica. Ma c’è l’enorme parco, con i seni verdissimi delle colline, il prato di un verde furibondo, da college inglese, senza cartacce, senza macchie secche. E il lago, un lago vero dalle acque placide e poco profonde, dove i bambini sguazzano allegri. C’era ieri il mercato, colorato allegro, come tutti giorni salvo il lunedì. E il centro sociale nella galleria Arlecchino, pulito chiaro raggiante, all’asilo si applica un programma pedagogico sperimentale, e poi la palestra, la sala degli spettacoli; le associazioni sono vive e attive, aiutano nel faticoso viaggio del quotidiano. Già: Villeneuve era una utopia. Del dopo ‘68, nell’euforia dei Giochi olimpici invernali, costruita da architetti «gauchistes» secondo una piacevole, civile delizia urbanistica, palazzi con chilometrici corridoi dove la gente fosse costretta a incontrarsi in continuazione e fraternizzare, dove si praticava la pedagogia alternativa. Ha funzionato. Per un po’. Perché l’utopia non ha solo bisogno di un luogo; ha bisogno di utopisti che la facciano funzionare. E’ impossibile immaginare Villeneuve «vecchia»: questi edifici possono solo essere demoliti e sostituiti da quello che tra 50 anni sarà moderno. A poco a poco la popolazione è cambiata: la classe media è scomparsa, gli alloggi popolari si sono riempiti di immigrati che sono diventati maggioranza. I bei colori del padiglione Arlecchino si sono spenti, professori e borghesi se ne sono andati. Per i nuovi abitanti usare questa utopia era troppo complicato. La maggioranza è garrotata dalla disoccupazione. Parli con torvi ragazzi, sentinelle nelle grandi pennellate di ombra di questi castelli-prigione dove abitano quindicimila persone; e continuamente senti una parola: denaro denaro... Che non c’è, che bisogna arraffare presto. Eccola, la malattia di Villeneuve: il fric, i soldi. Qua dentro ci sono quindicimila ostaggi di questa angoscia, che vogliono avere tutto purché sia futile.