Luca Piana e Paola Pilati, L’espresso 5/8/2010, 5 agosto 2010
LO STRAPPO DI MARCHIONNE
Siamo al limite di una rottura sociale molto forte: e la spaccatura del Paese può venire proprio a danno della parte che fatica di più. Non si può scaricare tutto sul lavoro e pensare che non succeda niente... Al commento preoccupato di Paolo Nerozzi, senatore Pd ed ex sindacalista Cgil, fa da contraltare l’entusiasmo di un esponente dell’imprenditoria come Riccardo Illy, industriale del caffè e politico che ha rappresentato l’Ulivo nel suo Friuli: "Il problema della Fiat è un problema nazionale. Se deve competere con Audi, Mercedes, Toyota, continuare a produrre a Mirafiori con svantaggio la condanna a chiudere. E, con lei, perdiamo tutti. Quindi: sì a nuove relazioni sindacali". Più radicalmente opposte, ma anche più vere e fondate entrambe, le due facce della questione Fiat non potrebbero essere. Sergio Marchionne ha scelto questa mezza estate in cui la politica è distratta dai veleni nella maggioranza, e le linee di montaggio dell’auto sono vuote per vacanze a cassa integrazione, per lanciare la sfida campale della sua storia in Fiat. Liberare il gruppo automobilistico dell’obbligo di rispettare un contratto di lavoro deciso sempre più lontano da Torino, e cucito su un settore, quello metalmeccanico, che mescola imprese grandi e piccole. Rivendicare la priorità degli obiettivi economici della casa sabauda. Dare l’imprinting per una riscrittura delle regole in fabbrica. Con un’idea-guida che la famiglia Agnelli ha chiarito una volta per tutte già da tempo: dopo 7 miliardi di aumenti di capitale, la vendita dei gioielli di famiglia e il falò che ha bruciato nell’auto 15 miliardi dal 1998 al 2005, la dinastia cerca il suo futuro fuori dell’Italia. Prima di tutto in quella Detroit dove i lavoratori chiamano Marchionne "Serghio" e hanno accettato condizioni al ribasso pur di salvare il loro fondo pensionistico dal crac, e dove Obama ha scommesso i suoi dollari in aiuti; in Polonia, con la sua produttività record; in Brasile, il cui boom economico dà gas alle vendite; in Serbia, dove il governo gli fa ponti d’oro e i sindacati locali, più remissivi dei nostri, inneggiano alla nuova futura "Città della Fiat", la Zastava, per 400 euro di stipendio al mese.
In Italia, il capo della Fiat ha già fatto inghiottire una prima metamorfosi passando dai Campi Elisi di un fantastico "progetto benessere" per Mirafiori (nel 2007), dai 30 euro di aumento benevolmente anticipati in busta paga agli operai, da una Fiat in armonia con "dipendenti, istituzioni, organizzazioni sindacali, tutta la società", all’inferno della chiusura senza scampo di Termini Imerese decisa all’inizio dell’anno. Poi, ha alzato il livello dello scontro: Pomigliano è diventata la fabbrica da rieducare, banco di prova di nuovi ritmi di lavoro con standard giapponesi; infine, ha colpito al cuore l’orgoglio torinese annunciando che la nuova monovolume che faceva da polizza d’assicurazione di Mirafiori sarà più convenientemente montata dagli operai serbi.
Ma la vera scommessa di Marchionne si chiama "newco", la nuova società che rileverà lo stabilimento campano. Fabbrica Italia Pomigliano è nata con un capitale di 50 mila euro il 19 luglio a Torino, e sarà il laboratorio del nuovo modo di fare le auto e le relazioni industriali in Italia.
Il nuovo modo di fare auto è basato su 18 turni di lavoro invece che 17, la riduzione-rimodulazione delle pause che genererà 6.500 auto in più all’anno, 80 ore in più di straordinario obbligatorio al mese, e una rigida riscrittura della metrica del lavoro. In fabbrica verranno applicati i sistemi del World Class Manufactoring ed Ergo-Uas, nomi che evocano la lean production, la produzione snella e di qualità inventata dalla Toyota, ma riscritti con l’aiuto del computer che analizza e calcola il movimento che ciascun operaio deve fare per sprecare il minimo del tempo, sbagliare meno e produrre di più.
Per far funzionare tutto questo ci vuole il consenso dei lavoratori. Che a Pomigliano lo hanno garantito con un sì al referendum solo per il 60 per cento. E gli altri? Gli altri potrebbero mandare tutto a monte. O meglio: i lavoratori contrari alle nuove regole, innanzitutto quelli Fiom, potrebbero sollevare individualmente, o in gruppo, la questione dell’applicabilità delle condizioni contrattuali non sottoscritte. Insomma mettere in dubbio la validità di quel contratto "erga omnes". E fare quindi una sorta di "class action" di fronte al pretore, con il conseguente caos che si potrebbe immaginare. Una trappola giuridica che viene discretamente adombrata nell’ultimo "Rapporto sulle relazioni sindacali" appena sfornato dal Cnel, ma che Marchionne e il suo capo delle relazioni industriali Paolo Rebaudengo devono avere ben presente.
La soluzione? Quella di scegliere i lavoratori uno a uno sarebbe brutale ma efficace. Ma far entrare nella nuova Pomigliano solo chi sottoscrive le nuove regole, licenziandosi dalla vecchia fabbrica e firmando un’assunzione nuova di zecca, mette in grossa difficoltà quella parte del sindacato, la Cisl in primo luogo, che ha accettato la trattativa con Marchionne. "La newco dà alla Fiat la possibilità di superare il contenzioso", spiega il giuslavorista Carlo Dell’Aringa, docente alla Cattolica di Milano: "Ma non la tutela fino in fondo dal rischio di impugnazione delle norme del nuovo contratto fatto firmare ai lavoratori, se queste fossero contrarie a quanto previsto nel contratto abbandonato", obietta.
Un passo per sottrarsi a questo tipo di beghe, sarebbe quello di uscire dalla Federmeccanica, l’associazione di categoria, e dal contratto nazionale, per poi confezionarne uno solo per l’auto, da soli o con una più snella "Federauto". "Essere fuori dalle parti significa essere meno vincolati rispetto agli impegni assunti", ragiona Dell’Aringa, "e la mossa di Marchionne potrebbe tentare molti altri imprenditori: la Fiat sta facendo quello che hanno fatto molte imprese tedesche, anche di medie dimensioni, che sono uscite dalle associazioni imprenditoriali per poter applicare contratti aziendali. Gettando nella disperazione i sindacati, e trattando peggio i lavoratori". "Non si può uscire dal contratto", si scalda Agostino Megale, presidente dell’Ires-Cgil e neo segretario generale dei bancari: "Marchionne pensa che si possa negoziare con i sindacati solo se sono d’accordo con lui. Ma questa volta risponderanno unitariamente". Un ricompattamento del fronte che, secondo alcuni, potrebbe anche rientrare negli obiettivi tattici della Fiat, a cui le spaccature non portano bene.
E gli obiettivi strategici di Marchionne, quali sono? Di certo, nel futuro della Fiat c’è la fusione con Chrysler. La vita separata di due società che hanno lo stesso amministratore delegato, fanno le stesse cose, ma soprattutto hanno intensi rapporti di fornitura, può sollevare mille conflitti di interessi da cui è bene uscire il più in fretta possibile. L’azienda di Detroit, nei piani appena resi pubblici, dovrà essere quotata entro il 2011. Quale migliore occasione per confezionare il nuovo gruppo multinazionale dell’auto sanzionando il passo indietro degli Agnelli? A quel punto, per convolare degnamente a nozze e attirare investitori sul mercato, gli stabilimenti italiani dovrebbero rispondere agli standard delle migliori fabbriche mondiali. In termini di produttività, ritmi di lavoro, costi. Tocca prepararsi in fretta all’appuntamento.
Lo scenario della disdetta del contratto sta terremotando anche il fronte confindustriale. "Il passaggio che la Fiat affronta oggi, molti piccoli imprenditori l’hanno già superato adottando misure di flessibilità che le ha rese più competitive", commenta orgogliosa Federica Guidi, leader dei giovani. E dal palazzo dell’Eur insistono sul feeling tra la presidente Emma Marcegaglia e il vertice Fiat. Ma un effetto spiazzamento c’è stato: dal momento che la Fiat vuol fare da sé, a che serve Confindustria? La via d’uscita prospettata, quella di cucire una deroga su misura per trattenere l’azienda di Torino, sarebbe una toppa peggiore del buco.
Nel sindacato c’è anche chi ritiene che Marchionne giochi una partita tutta sua, che non riflette davvero il disegno di una Confindustria che, fino a oggi, non ha mai messo in discussione il contratto nazionale: "Il contratto e la negoziazione con i sindacati garantiscono il fatto che le intese vengano sottoscritte, che si possano fare le ristrutturazioni aziendali, che la cassa integrazione venga attivata quando serve: non credo che le imprese vogliano rinunciare a tutto questo", dice Giorgio Airaudo, segretario della Fiom del Piemonte. Aspetti che ad alcuni appaiono secondari rispetto alle fragilità del sistema Italia. È così che la vede Mauro Ferrari, vice presidente di Webasto Italia, filiale del gruppo di componentistica tedesco, vicepresidente dell’Anfia: "L’Italia è al 57 posto nel mondo per competitività ed è ultima in Europa per investimenti esteri. Ci sarà una ragione per cui non c’è nessuna proposta industriale seria per rilevare lo stabilimento di Termini Imerese? Le condizioni del contratto proposto a Pomigliano possono apparire un po’ tirate, ma servono per ottenere livelli di produttività paragonabili a quelli di Paesi stranieri dove il costo del lavoro è un quarto di quello italiano. E se la Fiat abbandona il contratto e riesce a ottenere obiettivi finora nemmeno messi in discussione, ad esempio la non retribuzione dei primi tre giorni di malattia, l’intera filiera del settore auto non potrà non seguirla. L’abbandono del contratto nazionale sarebbe un passo nella direzione giusta, se vogliamo riportare in Italia le multinazionali". Non si può dire che la sfida di Marchionne non sia appassionante.