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 2010  agosto 05 Giovedì calendario

FAR WEST MESSICO


Il piano è riuscito alla perfezione e Ciudad Juarez, città messicana che si trova dirimpetto a quella americana di El Paso, ha cominciato a vivere un nuovo incubo. I gangster del cartello di Juarez hanno imbottito un’automobile di oltre dieci chili di esplosivo collegati a un telefono cellulare trasformato in innesco. Poi, hanno rapito un uomo, lo hanno costretto con la forza a indossare una divisa da poliziotto e gli hanno sparato soltanto per ferirlo. Quindi, hanno obbligato la loro vittima a entrare nella macchina carica di esplosivo e hanno telefonato al più vicino commissariato denunciando un conflitto a fuoco con un agente ferito dai trafficanti di droga.
I fotogrammi successivi dell’azione mostrano l’arrivo di un paio di Suv della polizia federale, di un’autoambulanza e di giornalisti e operatori di una televisione locale. L’uomo ferito gridava e chiedeva soccorso, mentre agenti, infermieri, cronisti, operatori e curiosi si avvicinano all’auto. Una grande fiammata, un boato, la bomba fatta esplodere da lontano con il cellulare. Sul terreno quattro morti e una dozzina di feriti. Eccolo il Messico della guerra tra governo e narcos che dal 2006 ha lasciato sul terreno quasi 25 mila morti. Da giovedì 15 luglio alle imboscate, alle rappresaglie a colpi di mitra, agli omicidi mirati, ai poliziotti onesti uccisi davanti casa esattamente nello stesso modo di quelli corrotti, agli avversari rapiti, torturati, filmati e poi decapitati o impiccati al ponte più vicino si è aggiunto il terrorismo delle auto bomba. Terrore come in Iraq o in Afghanistan, ma cucinato in salsa messicana con l’idea mai vista prima dell’esca viva e ferita per attrarre l’avversario.
Perché i narcos abbiano scelto di alzare il livello dello scontro non è ancora del tutto chiaro. A Ciudad Juarez, metropoli dove basta attraversare un ponte per essere negli Stati Uniti, la destinazione finale della maggior parte delle spedizioni di droga dei cartelli messicani, i trafficanti non vogliono interferenze nella loro attività. Il governo ha schierato la polizia federale e l’esercito a pattugliare le strade? E loro rispondono con l’auto-bomba per creare un clima di terrore, per dire senza sottintesi siamo pronti a fare di Ciudad Juarez la Baghdad o la Kabul del Centro America. Il solo possibile paragone è con la Colombia degli anni Ottanta quando il cartello di Medellin usò il terrorismo ed arrivò a far esplodere una bomba su un aereo in volo per ritorsione contro la decisione di estradare alcuni criminali negli Usa. Dunque, la trappola bomba dice a chiunque, a cominciare dalle forze di sicurezza, di stare lontano dai traffici dei cartelli, di restare al sicuro nei commissariati o nelle caserme. I loro affari sono miliardari: secondo le ultime stime della Drug Enforcement Agency americana il fatturato annuo dei narcos oscilla tra i 18 e i 39 miliardi di dollari.
Il messaggio è diretto anche al presidente Felipe Calderon, che quattro anni fa, appena eletto, dichiarò guerra ai cartelli, per fargli sapere che i suoi sforzi non scalfiscono il potere del crimine organizzato. Ogni salto di qualità nella violenza criminale della guerra che si combatte all’interno del Messico si porta dietro una scia di interrogativi. Il denominatore comune nel modo di agire dei membri dei cartelli è che la violenza deve essere totale e senza freni morali, basterebbe ricordare che all’inizio dell’escalation le sei teste mozzate di altrettanti gangster furono conficcate su una cancellata davanti a un commissariato nella turistica Acapulco.
Non ha altra logica se non quella della esibizione di violenza allo stato puro l’azione da commando militare messa a segno l’ultima settimana di giugno a Gomez Palacio, nello stato di Durango. In piena notte, uomini armati sono entrati in un centro di riabilitazione per tossicodipendenti e hanno aperto il fuoco. Risultato, nove morti. Quale era l’obiettivo? Risposte certe nessuna, solo ipotesi. Che tra i presenti ci fosse qualche rivale di un’altra gang. O che la caccia fosse a qualche informatore reclutato dalla polizia tra i tossicodipendenti. O ancora, un messaggio per dire che era inutile nascondersi in un centro di cura per sfuggire all’arruolamento forzato nei cartelli. Tanto la morte è sempre dietro l’angolo.
Quale che sia il movente della strage, questo modo di agire è diventato una costante nelle azioni dei narcos. In tutto il Messico. E non è la prima volta che nel mirino finiscono gli ospiti di una casa di cure per la tossicodipendenza. Sempre nello scorso giugno, un commando era entrato in azione in un centro a Chihuahua lasciando sul terreno 19 morti. Azioni analoghe erano state portate a termine a Ciudad Juarez nel 2008 e nel 2009, ancora una volta in centri di riabilitazione dalla droga, causando quasi 30 morti. Naturalmente, non uno dei responsabili di questi massacri è mai stato individuato, né una spiegazione certa del perché di queste uccisioni è stata fornita in modo ufficiale.
La polizia sembra incapace di arginare l’ondata criminale. E gli arresti, che pure ci sono in gran numero (nel 2009 sono finiti in manette anche 400 funzionari dello Stato infedeli), come i sequestri di carichi di cocaina o la scoperta dei laboratori per la produzione di droga sintetica assomigliano a punture di spillo sul corpo dell’organizzazione criminale. Mentre la politica sembra incapace di trovare soluzione a questa guerra. Per la quarta volta in meno di quattro anni, il presidente Calderon ha licenziato il ministro dell’Interno, il secondo più importante incarico nel governo perché ha la titolarità della sicurezza nazionale e dei rapporti con i partiti di opposizione. Ed ha chiamato all’unità le forze politiche: "I messicani possono sconfiggere il nemico comune... È nella divisione tra i messicani che il nemico può trovare spazio, mentre di fronte alla sfida che il crimine ha lanciato è impensabile che ci sia qualcuno che pensa di ricavarne dividendi politici". Ma nelle elezioni per il rinnovo di 14 governatori, il corpo elettorale ha risposto bocciando quasi sempre chi era al governo senza tenere conto del partito di appartenenza (vedi box a fianco).
Il costo che il Messico sta pagando è altissimo. Di anno in anno il numero delle vittime è aumentato in modo esponenziale fino a raggiungere quasi i 25 mila morti. I dati più recenti li ha forniti il ministro della Giustizia Arturo Chavez: da quando Calderon è presidente e fino alla fine di giugno 2010 le vittime sono state 24.826, nel solo 2010 le vittime sono 7.048 e la città più violenta è proprio Ciudad Juarez dove nel 2009 sono stati uccise 2.660 persone. In modo ufficioso le forze di sicurezza hanno fatto sapere che il numero di poliziotti e soldati che hanno perso la vita (e molti di loro erano al servizio dei cartelli) raggiunge quasi il 7 per cento della cifra totale: solo a giugno del 2010, si contano 103 vittime tra gli uomini in divisa.
Il presidente messicano ha schierato sul campo 45 mila soldati e 5 mila agenti della polizia federale per combattere i narcos dei cartelli di Sinaloa, del Golfo, di Juarez, di Nuevo Laredo, di Michoacan, di Oaxaca, di Tijuana. Ma le organizzazioni sono in continua trasformazione ed intorno a loro sono nate micro bande che raccolgono i resti del grande affare e si muovono da un cartello all’altro a seconda della convenienza e delle alleanze che si fanno e si disfano in continuazione. È un mercato del lavoro criminale che funziona perfettamente e dove l’offerta supera sempre la domanda. In più, in Messico sono sulla scena Los Zetas, un gruppo di gangster che hanno origine nei corpi scelti delle forze armate messicane: sono passati in senso letterale armi e bagagli dal servire lo stato al traffico di stupefacenti. E le armi non mancano: i 3200 chilometri di frontiera con gli Stati Uniti sono il punto di passaggio di armi comprate legalmente nei negozi in base al diritto costituzionale (in Usa) di possedere armi per la difesa personale e rivendute illegalmente in Messico. Quando non si comprano, si rubano, come è il caso di 800 chili di esplosivo rapinati in Texas da banditi mascherati. Ma i punti di rifornimento sono infiniti: nelle mani dei cartelli sono finite migliaia di bombe che gli Usa avevano fornito negli anni Ottanta ai governi centro americani che combattevano i diversi gruppi della guerriglia.
La situazione in Messico preoccupa non poco il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Appena arrivato alla Casa Bianca andò in Messico in visita ufficiale e pochi mesi fa ha ricevuto Calderon a Washington. Il conflitto con il crimine organizzato è nei fatti una guerra alle porte di casa che, insieme a quella dell’Iraq e dell’Afghanistan, rischia di pesare molto nella politica interna americana. Il governo Usa, con George W. Bush, ha stanziato un miliardo e 200 milioni di dollari sotto il nome di Merida Initiative: fino ad ora è stato speso poco più del 10 per cento di quella somma e un dossier del Government Accountability Office, consegnato al Congresso il 28 luglio, sostiene che non c’è modo di capire se quei soldi abbiano portato a qualche risultato . Il Messico ha chiesto aiuto agli Stati Uniti anche per cercare di ridurre il traffico di droga in direzione nord e quello delle armi in direzione sud. Obama ha deciso che la presenza militare americana sarà ancora più visibile dal primo agosto. Quel giorno 1.200 uomini della Guardia Nazionale saranno schierati lungo i confini di quattro Stati - Texas, Arizona, New Mexico e California - che sono l’enorme porta di ingresso dei narcos messicani.