Serena Gana Cavallo, ItaliaOggi 30/7/2010, 30 luglio 2010
LA FESTA È FINITA, IL MESSAGGIO DELLA FIAT È CHIARO
Quel che va bene per la Fiat va bene per l’Italia, si diceva un tempo. E, a distanza di un trentennio dalla prima e determinante collisione con i veti e la forza, veramente notevole a quel tempo, di un sindacato che non aveva uguali in Europa, ma che intesseva il suo potere anche con lacci e lacciuoli rivendicativi che soffocavano ogni innovazione ed ogni possibilità di adeguare le realtà produttive all’evoluzione della realtà tecnologica e di mercato, la Fiat si fa di nuovo, e da posizioni di maggior forza, testa d’ariete per farci capire che con la globalizzazione dei mercati e delle produzioni, come molti ripetono, la festa è finita.
Trentuno anni fa, il periodo più tumultuoso della Fiat, che portò dai sessantuno licenziamenti, alla cassa integrazione di massa, alla dura vertenza sulla mobilità esterna che si concluse con la marcia dei quarantamila, cominciò con la vertenza del settore verniciatura a Mirafiori. In sintesi, la Fiat aveva automatizzato le cabine di verniciatura sostituendo il processo in cui c’era l’operaio.
Quel tipo di lavorazione, pesante e potenzialmente nocivo, aveva fruttato, in sede di contrattazione, il diritto a una pausa dal lavoro di 15 minuti ogni ora, si potrebbe dire letteralmente per riprender fiato. L’azienda, introdotta la lavorazione automatizzata annullò la pausa, che avrebbe comportato il contemporaneo blocco dei macchinari. Tale decisione, a rigor di logica più che comprensibile, fu duramente contestata, provocò una serie di blocchi improvvisi del lavoro nel settore verniciatura, di «messe in libertà» dalla parte aziendale, con operai in sciopero, cortei interni all’azienda con i capi presi in ostaggio dai manifestanti.
Il passo successivo dell’azienda furono i 61 licenziamenti. Gianni Agnelli definì quel periodo «la sarabanda», ma in effetti, a Mirafiori, succedeva di tutto. I licenziati furono accusati di disordini e violenze, non di terrorismo, anche se tra loro qualche terrorista c’era. Ma - si passi il paradosso - il terrorismo era il meno: uno aveva organizzato quella che chiamava la «mensa alternativa». In un sottotetto dello stabilimento, con bombole, pentole e fornelli, preparava pasti per i suoi compagni di lavoro, ovviamente a prezzo concorrenziale con la mensa aziendale. «Ma, se ti licenziano che farai?» gli chiesi. Dopo un attimo di riflessione decise che avrebbe aperto un ristorante. C’era chi gestiva una sorta di mercatino, come quelli che troviamo in piazza, ma senza merci cinesi, dati i tempi. C’era chi si appartava per incontri amorosi, resi possibile da una massiccia entrata di donne in fabbrica con la vittoria sindacale del ricorso al collocamento obbligatorio. C’erano numerosi delegati sindacali, in primis del settore verniciatura, ma anche le presse, dove i capi erano particolarmente presi di mira, aveva i suoi rappresentanti.
E c’erano i brigatisti. Uno lavorava alla Lancia di Chivasso e metteva biglietti minacciosi nelle tasche dei capi come in quelle dei rappresentanti di fabbrica. L’avevano individuato, me ne dissero il nome, ma dopo l’uccisione di Guido Rossa la denuncia doveva essere fatta dalle strutture sindacali e molti nel consiglio di fabbrica «non volevano abbassarsi al livello della delazione» mentre al provinciale Fiom di Torino c’era chi diceva che la denuncia era affare che non si poneva per il sindacato, che doveva svolgere la sua lotta contro il terrorismo organizzandosi per conservare il massimo consenso possibile tra gli operai e la cittadinanza. La denuncia era affare che riguardava le forze dell’ordine. L’anno della sarabanda finì con la marcia dei capi. Tecnicamente vinsero loro, non la Fiat in prima persona.
Questa volta sembra che l’Azienda, il suo capo, successore elettivo di quello che era considerato il re dell’Italia repubblicana, voglia vincere in proprio tracciando un nuovo perimetro delle relazioni sindacali e delle regole contrattuali. Marchionne non pare così sprovveduto da voler fare una guerra demolitrice contro i frutti universalmente validi di più di cento anni di lotte sindacali, come alcuni paventano, ma non sembra neanche incline al compromesso conciliatorio che è stato praticato nei decenni, col risultato che ogni ridimensionamento dei dipendenti Fiat è stato fatto perché necessario, come dice oggi anche Piero Fassino, ma pagato da tutti gli italiani attraverso l’erogazione plurima di forme di cassa integrazione. Voler rendere le aziende italiane più competitive, più flessibilmente produttive, voler riaffermare una sorta di lealtà etica tra lavoratori e impresa, tutta roba che può essere ottima. C’è un piccolo neo in tutto questo: il lavoro dipendente è quello che in Italia è il più spremuto, vessato, controllato sotto il profilo fiscale e retributivo e non c’è governo che faccia alcunché in proposito. Se tutto il cambiamento si ferma alla possibilità di lavorare o di non perdere il lavoro, può anche passare, ma la frustrazione dei lavoratori peggio pagati (al netto) tra i paesi europei più avanzati può accrescere insofferenze e frustrazioni. Nel panorama degli anni ’80 il terrorismo ebbe un ruolo molto pesante. A Torino la tensione si poteva toccare. In un incontro con dirigenti Fiat, dopo l’assalto alla scuola aziendale a fine ’79 e dopo tanti terribili attentati, tutti mi raccontarono delle loro cautele, delle paure, dei percorsi in macchina sempre diversi. Poi uno mi disse «però, a sparare a quel medico abortista hanno fatta bene!». È ben strana la mente umana.