Luca Attanasio, Avvenire 30/7/2010, 30 luglio 2010
«TORTURA», PAROLA ANCORA ATTUALE
Le celle sono deserte. Da due settimane, il carcere libico di al-Biraq è chiuso. Le autorità locali lo hanno deciso dopo le denunce sulle tremende condizioni in cui erano tenuti i prigionieri, in gran parte migranti eritrei di passaggio nella lunga traversata verso l’Europa. La vicenda – oltre all’effetto pratico di “mettere i sigilli” a al-Biraq – ha fatto ritornare in circolo un termine solo in apparenza desueto: tortura. Nel mondo esistono circa 200 Stati. Di questi, triste scoperta, almeno 111 secondo l’ultimo rapporto Amnesty praticano la tortura. In 50 Paesi, tra i torturati figurano anche minori. A leggere poi che il 79% dei maltrattamenti avviene nei Paesi del G20 i dati da incredibili si fanno inquietanti. «Certo, quasi tutti i Paesi del mondo hanno firmato, e molti anche ratificato, la Convenzione Mondiale contro la Tortura – spiega Massimo Corti, del consiglio direttivo di Acat (Azione dei Cristiani per l’Abolizione della Tortura, acatitalia.it) –. Per tanti, però, è una sigla senza senso. In oltre 70 Paesi la tortura viene attuata senza problemi. L’Italia, poi, è un esempio negativo». Si riferisce al fatto che lo scorso 9 giugno il nostro Paese si è rifiutato di introdurre la tortura nel Codice penale come raccomandato dall’Onu.
Si possono leggere rapporti. Ottenere fotografie più o meno esaustive del fenomeno. Ma comprendere cosa significhi vivere esistenze sfregiate dalla tortura è molto più complesso. «Non è semplice entrare nel mondo dei torturati. Capita di trovare persone che parlano a lungo, liberandosi di un peso terribile. Ma il più delle volte ci dicono il minimo indispensabile per ottenere lo status, il passato è un capitolo doloroso che vorrebbero chiuso per sempre». A parlare è la dottoressa Tumiati, psicologa e coordinatrice del Servizio Richiedenti Protezione Internazionale, Rifugiati e Vittime di Tortura “Passaggi nei Territori di Giano”, presso l’Inmp-Ospedale San Gallicano di Roma. «Circa il 90% di quelli che si rivolgono a noi hanno subìto torture compiute da governi, polizie, eserciti, gruppi politici e avvengono nel Paese di origine ma anche di destinazione». Scappano dall’Afghanistan (35% circa), Kurdistan turco e Iraq (15%), Nigeria (12%), e via a seguire con grande prevalenza di Paesi africani seguiti da quegli asiatici. Violenze di ogni tipo, poi, avvengono nei vari Paesi che i migranti toccano negli infiniti viaggi della speranza. «Noi – riprende Tumiati – sappiamo di maltrattamenti in tanti Paesi, anche europei, come la Grecia. Di certo la Libia è ai primi posti della tremenda classifica per torture e abusi».
È lì che l’Italia «respinge» africani o asiatici al termine di un viaggio più drammatico che rocambolesco. Quello che spiega Bawer Gulmez, un mediatore culturale curdo-turco in servizio al centro, fa riflettere. «Che partano dalla Turchia o dall’Iraq, dalla Liberia o dal Ciad, moltissimi passano per la Libia e la stragrande maggioranza ci riportano di gravissime torture». A scorrere la lista ufficiale dei metodi di tortura classificati, si resta senza fiato. Disturbi post traumatici, gravi disturbi del sonno, depressioni, manie di persecuzione; sono questi i problemi più frequenti riscontrati a un esame oggettivo delle persone che si rivolgono al centro. Un male che sparge abbondante e casuale il suo seme. Va solo contrastato.