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 2010  luglio 29 Giovedì calendario

IL PENSIERO UNICO DELLA SPESA, UN MALE ITALIANO

L’aspetto più sconsolante del «dibattito» sul Ddl Gelmini sull’università è l’interesse esclusivo per le questioni della spesa, come se le virtù di bilancio fossero in grado, da sole, di ridare vita a un’istituzione che sta visibilmente morendo o, ciò che è la stessa cosa, trasformandosi in qualcosa di abissalmente lontano dai fini che tradizionalmente le vengono attribuiti. E questo è tanto più paradossale, quanto più i dati pubblicati ogni giorno mostrano che la spesa per studente, da noi, è tra le più basse in Europa. Come se, insomma, la cura per chi sta morendo d’inedia fosse il digiuno.
Ben pochi si interrogano su quello che l’università è diventata negli ultimi vent’anni, direi dall’epoca di Ruberti, e soprattutto sulle conseguenze delle varie «riforme», a partire da quella Berlinguer, per ciò che si fa (o si dovrebbe fare) davvero in università, ricerca e didattica. In questo senso, il nostro lettore della lettera a fianco descrive perfettamente la complicità di gran parte dei docenti e degli studenti nello sfruttare i miseri vantaggi di una pseudo-razionalizzazione al ribasso. Quanti professori, ormai, se ne lavano le mani dicendo «mi limito a fare il minimo indispensabile», oppure «mi imbosco fino alla pensione»? E quanti studenti concepiscono i loro obiettivi culturali, in questa atmosfera di depressione, come esclusiva ricerca di voti sempre più facili?
Io credo che tutto il male discenda dall’aver applicato meccanicamente all’università una logica opaca e posticcia («autonomia», «professionalità», ecc.) che non discende da alcuna cultura dell’efficienza (che in Italia non esiste, a partire dal mondo dell’impresa), ma dall’utopismo punitivo dei «riformatori». Si pensi solo alla sciagurata definizione degli studenti come «clienti», presente nei documenti di indirizzo della riforma nota come «3+2». Mentre da una parte si trasformava il sapere in calcolo di «crediti» e «debiti», dall’altra si strizzava l’occhio ai «clienti» facendo capire loro che, alla fine, nessuno li avrebbe bocciati più di tanto, purché non rompessero le scatole, non protestassero, si adeguassero al tran tran.
Oggi i ricercatori protestano giustamente perché le loro carriere sono bloccate, e tutti gli altri borbottano e mugugnano perché gli scatti di stipendio sono saltati, o perché li si vuole mandare in pensione prima (scaricando sull’Inpdap i loro oneri), perché non ci sono fondi, ecc. Ma perché non si sono mai ribellati di fatto alla miserabile aziendalizzazione degli atenei, alla contabilizzazione dei crediti, alla proliferazione insensata dei corsi, ai master mangiasoldi, alla vacuità dei dottorati, allo scollamento assoluto tra ricerca, un optional legato ormai alla buona volontà individuale e una didattica ripetitiva e massificata?
Il favore da cui il Ddl Gelmini è accolto dalla cosiddetta stampa indipendente e da tutto l’arco parlamentare descrive la connivenza generale nello strangolamento dell’università. Ma riflette anche la passività di gran parte del ceto accademico negli ultimi due decenni. E in fondo è l’espressione di quello che il paese è diventato, uno spazio privo di idee e progetti in cui la contabilità spicciola è diventata pensiero unico, a destra come a sinistra.