ALBERTO ARBASINO, la Repubblica 30/7/2010, 30 luglio 2010
LA MUSICA SECONDO BORTOLOTTO TRA DON CARLOS E MANGANELLI
Naturalmente, le "correspondances" sono le medesime stabilite da Baudelaire e dai migliori simbolisti per i sensi più spirituali e fini: i colori e i suoni e i profumi interagiscono e si influenzano. E dunque, olfatto e vétiver sì, gusto e pralines no. Con problemi quando «la malheureuse a perdu l´odorat»: e ne derivano pessime puzze di cani e gatti fra quadri magnifici e registrazioni musicali illustri. (Mentre soprattutto in Francia tanto volentieri i capolavori pittorici e operistici vengono usualmente associati alla gourmandise).
Poi, si sa, la corrispondenza diventa un genere giornalistico: tutto un andazzo di recensioni e resoconti di eventi e serate, da trasmettere sollecitamente alle pagine degli spettacoli, per telefono, dimafono, fax, e – mail. E lì si discorrerà pochissimo dei compositori e dei loro lavori. Molto, invece, dell´esecuzione da parte del direttore, dei cantanti, dell´orchestra, magari del coro. Da qualche tempo si commentano soprattutto le bizzarrie e le stronzate negli allestimenti.
Quindi si collocano sovranamente "al di sopra" le Corrispondenze di Mario Bortolotto (Adelphi, pagg. 511, euro 36). Con un vivace rimpianto per le sue magnifiche cronache delle rappresentazioni: fondamentali, per noi appassionati spettatori amanti dei grandi interpreti, rispetto alla "riserva indiana" delle sopraffine letture commentate e tecniche dei testi. Un po´ come avviene davanti alla saggistica settoriale degli esperti, dopo le esposizioni e le retrospettive.
Così appare costante una grandiosa sprezzatura intimidatoria. Se non cogli una lieve allusione, peggio per te. Ma non si spezza il filo della prosa nemmeno quando si cita un importante nome poco noto, e il Nostro la sa evidentemente lunga in proposito, e tu ne vorresti sapere di più. Per esempio, su Oswald Kabasta, direttore dei Wiener Symphoniker o Philarmoniker suicida nel ‘46 e di cui non si trova niente nei classici negozi musicali viennesi. O su Ch. V. Alkan, mitico pianista-tramite fra Chopin e Liszt. Ignoto da noi, anni fa se ne trovavano buoni dischi a Parigi, con la leggenda della sua morte sotto una libreria di Talmud rovesciati. E "il meraviglioso Franz Schreker", liquidato con un aggettivo così impegnativo, ma di cui ritroviamo qua e là le opere, anche da poco a Palermo? Ma chissà com´era Il deserto tentato, opera etiopica di A. Casella e C. Pavolini rappresentata solo a Firenze nel ‘37.
La ricchezza di questi testi è inaudita; e le interferenze, veloci e continue, tra zig-zag vertiginosi e profondità da capogiro, presentate come "casual". Civetterie sistematiche. Asseverazioni trancianti. Così Mario il Mago o Mario il Drago va galoppando attraverso territori beneamati: la Romantik e l´esotismo, Cajkovskij e Bizet. E naturalmente Verdi. Sempre consultando e confrontando una mole ricchissima di epistolari, distese inaudite di saggistica.
Deliziose e rilassate pagine sull´amato Verdi, innanzitutto: con trovate e acutezze soprattutto sul Don Carlos e La forza del destino, oltre che sull´ammiratissimo Falstaff. Uno schietto affetto per la prosa incantatoria di Eugenio Montale «semplice dilettante di melodrammi, poco amante della musica pura ma addirittura innamorato della musica teatrale». E non solo: passione autentica «per l´orrido / repertorio operistico con qualche preferenza / per il peggiore». (Che lezione, per la critica musicale?).
Ma lì accanto, una devozione sfrenata per lo sbrigativo magistero dell´incomparabile Fedele d´Amico (quante lezioni di critica musicale definitiva in poche battute, negli intervalli o in pizzeria), malgrado le sue predicazioni sulla necessità assoluta di tradurre in italiano i libretti d´opera anche eccelsi. (Essendo poi Lele stesso un eccelso traduttore-princeps). Mentre non ha occasione di apparirvi, con Giorgio Manganelli e Milan Kundera e Massimo Mila, il pur sublime Giorgio Vigolo, tra Santa Cecilia e il Mattutino delle Tenebre.
I frequenti itinerari attraverso Schoenberg non incrociano mai il Moses und Aron, né quindi la prima esecuzione scenica dovuta a Hermann Scherchen nella Berlino poverrima del ‘59, farraginosamente raggiungibile quando ormai si era stabilmente ristabilita la tradizione salisburghese delle serate indimenticabili con interpretazioni fondamentali fra i drinks e i pranzi nei ristoranti chic. (Laddove a Bayreuth rimaneva fisso un livello di pasti per crocieristi). Mentre per l´Oedipus Rex di Stravinskij, a parte le manomissioni sul testo di Cocteau e Daniélou, taluno potrebbe talora prediligere una memoria del grandioso evento romano curato da Squarzina e Manzù: monumentali muraglie e barbe rosa, Inge Borkh e Martha Mödl in Elektra nella prima parte. E Brandi, Palazzeschi, Magnani, Bolognini, Milloss, Scialoja, Vlad, in platea; e poi a pranzo alle Colline Emiliane.
Può così apparire negligibile se lo smisurato Libro dei Sette Sigilli di Franz Schmidt qui recensito dalla rassegna pisana "Anima Mundi" fosse poi la stessa macchina sonora ascoltata invece ai "Proms" londinesi. Già impossibile, infatti, un confronto fra la leggendaria "prima" del Rake´s Progress stravinskiano alla Fenice e la "prima in edizione italiana" tiepidamente accolta alla Scala un mese dopo, e schiacciata fra i grandiosi Vespri siciliani De Sabata-Callas e un epocale Tristano e Isotta ancora con De Sabata, e la Grob-Prandl e Max Lorenz. Tutti i cantanti del Rake, dalla Schwarzkopf in giù, dovettero imparare una versione italiana al posto di Auden e Kallman: si diceva allora, perché il Maestro aveva venduto due volte i diritti. Ma quando lo chiesi a Robert Craft, poco fa, non ricordava.
Estasi ferali costanti di Cajkovskij, per Bortolotto. E poi, via via dalle infallibili levità di Poulenc alla tormentosa Angstneurose di Sostakovic (ma dove si ascoltarono le sue Prima e Quindicesima Sinfonia dirette da Gergiev? ad Amsterdam?).
E dove incominciò la fortuna postuma e recente delle opere di Franz Schubert, con Alfonso und Estrella e le altre, oltre che a Zurigo?... E fu forse a Berlino che si assisté a una Erwartung di Schoenberg ambientata in uno scarico di rifiuti, mentre fu certamente alla Staatsoper viennese una Jakobsleiter con tutti in fila carichi di valigette povere come nelle foto della Shoah? E in double bill con Gianni Schicchi, oltre tutto, per attrarre pubblico? All´indomani della ri-presentazione trionfale di Jonny Spielt Auf di Krenek splendidamente diretta da Seiji Ozawa? E a parte Ozawa stesso poco fa a Firenze, chi mai si ascoltò meglio di Charles Mackerras nella bellissima Piccola volpe astuta di Jànacek, allo Châtelet parigino?...
E in quante sedi e tesi è stata insistentemente ripetuta la vecchia lectio magistralis anti-pop di Adorno, con tutte le solite false emozioni, la solita banalità delle melodie, l´ovvia spudoratezza nella trivialità senza preoccupazioni, e una compiacenza senza complessi né complicazioni nell´ostentare un´assoluta mancanza di gusto e inibizioni... E apparentemente nessuno si vergogna più!
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