Joseph Halevi, il manifesto 29/7/2010, 29 luglio 2010
COSI’ LA FIAT ROVINA IL MERCATO
Dal contratto capestro di Pomigliano alla delocalizzazione della produzione in Serbia, pur di giustificare l’operato della Fiat è stato detto tutto ed il suo contrario, in barba ai fatti. La Stampa di Torino ha colpevolizzato i governi passati per aver abbandonato ogni politica industriale. Verissimo, scordandosi però di menzionare che quando due decenni fa Romano Prodi prese in mano la direzione dell’Iri per smantellarne e privatizzarne le diverse componenti, ricevette il plauso dell’intero establishment economico e politico italiano. La débâcle dell’Alitalia, che fu una compagnia tecnicamente stellare nel campo dell’aviazione civile, è riconducibile a quelle sciagurate privatizzazioni. Tuttavia è Gianni Riotta sul Sole 24 Ore del 25 luglio a superare ogni cantore dell’azienda che nacque a Torino. Il suo messaggio ha il dono, ma non il merito, di trasformare una questione complessa in una serie di asserzioni dirette imperniate sulla frase che la Fiat «chiunque la guidi, come qualunque altra fabbrica, produrrà o no in Italia se, e solo se, le condizioni di mercato lo consentiranno». Secondo Riotta «anche se Marchionne decidesse ’Mirafiori non si tocca’, se il governo stanziasse i più pingui sussidi (stroncati presto dall’Europa)... il risultato non muterebbe».
Eccovi serviti, l’oggettività economica è inalterabile ed insindacabile. Solo che non si tratta per niente di oggettività. L’attuale fase della politica Fiat corrisponde ad una situazione in cui il mercato viene ’rovinato’ dal fondere la crisi con le modalità con cui il gruppo dell’auto vi sta reagendo. Ciò significa che l’effetto cumulativo sarà probabilmente negativo sia per il mercato che per i dipendenti e settori affini. Nessuna condizione di mercato, nemmeno quella dei salari cinesi, può competere con le condizioni ottenute dalla Fiat in Serbia: aiuti pubblici europei e del governo di Belgrado pari a 600 miliardi di euro, ristrutturazione totale del sito serbo, bonifica del territorio dalle bombe lanciate dalla Nato nel 1999 e l’esenzione dal pagamento delle tasse per 10 anni. È falso quindi dire che l’Europa boccia gli aiuti, anzi li sostiene, bisogna vedere dove però. Ma non finisce qui. Ad ogni nuova assunzione effettuata nello stabilimento serbo, e gran parte delle assunzioni saranno per definizione nuove, il governo di Belgrado pagherà all’azienda emigrata da Torino 10 mila euro. Dato che lo stipendio medio sarà di 400 euro al mese, la Fiat otterrà un sussidio pari a due anni di stipendio per ciascun nuovo assunto. In altri termini i costi del lavoro verranno azzerati per due anni. Come ha già opportunamente osservato Luciano Gallino si tratta di puro dumping sociale. Si tratta anche di ciò che gli economisti di un tempo, come Alfred Marshall e Knut Wicksell, avrebbero definito come spoiling the market, rovinare il mercato. Ed infatti così si rovinano sia le condizioni produttive a Torino che in Serbia perchè colà si istituzionalizzano condizioni drogate soprattutto quando l’entità che investe, la Fiat, non è un’industria nascente bensì un organismo altamente oligopolistico che opera in un settore maturo e saturo.