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 2010  luglio 30 Venerdì calendario

A CINQUE MESI DALL´ERUZIONE CHE BLOCCÒ GLI AEREI IN EUROPA SIAMO TORNATI IN ISLANDA. PER SCOPRIRE CHE IL VERO INCUBO È IL CRAC ECONOMICO - SELFOSS

(islanda meridionale)
A cinque mesi dall´eruzione il vulcano se ne sta rintanato tra i suoi ghiacci, e oggi anche tra le nuvole, come un attore tornato dietro le quinte dopo un monologo estenuante. In quaranta giorni di fuoco sparò in cielo trecentomila tonnellate di materiale vulcanico, costrinse l´Europa a sospendere per una settimana il traffico aereo, stese sul suo ghiacciaio e sui prati alle pendici il mantello di sabbia nerissima che tuttora li avvolge. Da allora tace. Quanto più adesso ci si avvicina all´Atlantico, tanto più la lotta tra l´erba e le scorie, tra il verde e il nero, vede la vegetazione in rimonta. Le piogge hanno restituito alle pecore le pasture. Per decine di chilometri il paesaggio sembra ancora lavorato con il carboncino e alcuni piccoli iceberg a galla nella laguna di Jokusarlon danno l´impressione d´essere stati intinti nella pece. Però da tre mesi il vulcano non spaventa più con boati e saette gli abitanti delle trenta fattorie sparse sulle piane alluvionali di questa costa. E´ finita? Nessuno lo crede.
Il vulcano appartiene ad un ghiacciaio il cui nome suona a sua volta come un´eruzione: Eyjafjallajokul. Nell´ultimo millennio si è manifestato altre tre volte e sempre, qui sta il guaio, in sincronia con il vulcano limitrofo, il terribile Hekla. Probabilmente collegati da un sistema simile ai vasi comunicanti, i due si porgono la battuta come la spalla e il prim´attore: quando finisce l´uno attacca l´altro. E non solo le eruzione prodotte dall´Eyjafjallajokul sono state sempre precedute o seguite da ben più furiose eruzioni dell´Hekla, ma quest´ultimo ha una media di due esplosioni ogni secolo, dunque è in arretrato: l´ultima nel 1918.
Da allora se ne sta acquattato sotto un ghiacciaio lungo trenta chilometri, covando chissà cosa. Lo sorvegliano telecamere, sismografi, soprattutto idrometri (misurano il volume d´acqua dei torrenti che colano dalle pendici: quando la pressione della lava aumenta, gli strati di ghiaccio più bassi fondono). Questa strumentazione permette di prevedere il peggio con un anticipo di qualche giornata. I propositi dell´Hekla non sono irrilevanti, considerando che una grande eruzione può inondare la stratosfera con una quantità di ceneri pari a tre volte quelle prodotte dal vulcano dell´Eyjafjallajokul. Alcune eruzioni islandesi sono state così possenti da cambiare la storia. Quella del 1782 non solo ammazzò un quarto della popolazione, ma provocò in Europa terribili carestie, e le carestie la crisi inflattiva che contribuì a far deflagrare la Rivoluzione francese.
Eppure non è sottoterra la minaccia che più inquieta l´Islanda. Da tempo i suoi abitanti hanno imparato a convivere con mostri in grado di spegnere il sole per settimane, inventare in poche ore isole e penisole, liquefare ghiacci spessi 800 metri, proiettare in cielo colonne di vapore alte undici chilometri, rovesciare all´improvviso sulla costa volumi d´acqua pari alla portata del Rio delle Amazzoni e trascinanti iceberg grandi quanto palazzi. Solo per stare alle imprese compiute nelle ultime decadi da alcuni tra i ventidue vulcani attivi dell´isola. Gli islandesi sanno come schivarne la furia, e anzi sono riusciti a trasformarla in un´attrazione turistica. A Reykjavik un piccolo cinema proietta soltanto film sulle eruzioni: le più spettacolari.
Molto più difficile prendere le misure all´insidia sconosciuta e silenziosa apparsa a Reykjavik negli ultimi mesi: il Fondo monetario. I suoi schivi economisti hanno appena aperto un ufficio proprio alle spalle della palazzina del governo: e così appostati, ora sorvegliano che una popolazione incolpevole si sobbarchi i sacrifici necessari a fare fronte ai debiti colossali accumulati all´estero da un pugno di avventurosi finanzieri. Nella percezione locale, lo sbarco nell´isola di questi intrusi non sembra molto dissimile dallo sbarco dei pirati saraceni che quattrocento anni fa rapirono 262 tra donne, adolescenti e bambini, in seguito mai più riapparsi e probabilmente venduti nel mercato degli schiavi di Algeri.
In realtà i funzionari del Fondo non sono imputabili di avidità saracena. Non sono loro ad aver inventato la regola aurea della finanza internazionale, privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Però sono esecutori di una sorta di ordinanza eticamente oscena, per la quale 320mila islandesi dovranno rispondere delle malefatte di quei banchieri, molti di nomina politica, che hanno fatto bancarotta in Gran Bretagna e in Olanda. All´epoca del crac le autorità britanniche applicarono la legge antiterrorismo per porre sotto sequestro le casseforti islandesi. A ruoli invertiti, Londra forse non avrebbe mandato le sue cannoniere nella baia di Reykjavik, ma certo avrebbe reagito. Invece la piccola Islanda ha dovuto chinare il capo. Finora, almeno. Chiamati a ripianare le voragini lasciate dai finanzieri, gli islandesi si stanno scoprendo comprensibilmente restii a svenarsi, a devastare lo stato sociale, a vendere tutto il vendibile. Secondo alcuni calcoli, soltanto gli interessi sul debito equivarrebbero all´80% del gettito fiscale.
Considerando il rapporto tra popolazione (minuscola) e ammontare del crac (immenso: i clienti britannici di una banca fallita erano tanti quanti gli islandesi), probabilmente non v´è Paese al mondo così colpito dalla crisi. Comprensibile che adesso molti islandesi ricordino con nostalgia il Paese che erano prima della bolla finanziaria - quella società orizzontale, coesa, non ancora scomposta in classi dalla ricchezza poi sopraggiunta. Ma società così omogenee sono anche molto conformiste, un limite che contribuì al disastro. Quando, per ragioni più contingenti che strutturali, la kruna islandese divenne una valuta fortissima, quasi nessuno si domandò se fosse sano che in pochi anni la finanza dell´isola ingigantisse fino a dodici volte quel che era l´economia nazionale. Tutti si sentirono finalmente ricchi, e dopo secoli di penuria presero a comprare, a investire, ad indebitarsi in valute straniere. Non se ne può fare colpa alla gente, dice in un´intervista Vigdis Finbogadottir, la prima donna in Occidente che divenne capo di Stato (nel 1980). Alla stampa, semmai: «Le notizie finanziarie erano sempre in prima pagina, corredate dalle foto di quegli uomini sempre sorridenti (i finanzieri islandesi). A me pareva insolito, era come se fosse propaganda». Celebrati dalla stampa come i Corporate Vikings, i sorridenti finanzieri accondiscesero all´adulazione dei giornalisti, spesso loro dipendenti, sbarcando all´estero con società che saccheggiavano i nomi della mitologia vichinga - Thor, Odino.
Quel mondo in carta patinata venne giù in due settimane, nel 2008, allo scoppio della crisi dei subprime. La kruna crollò, migliaia di islandesi si trovarono a dover pagare debiti in valuta straniera che erano perfino quadruplicati, e i nuovi condottieri vichinghi si rivelarono per quel che erano: caricature. Da allora gli islandesi hanno fatto cose che, prima, avrebbero giudicato sbagliate, se non stravaganti. Hanno mandato al governo il centrosinistra, dopo 18 anni di centrodestra; piazzato in parlamento un partito semi-anarchico (si chiama "Movimento"); ed eletto sindaco di Reykjavik un comico che ha fatto una campagna elettorale in puro stile dadaista. Molti cittadini sono addirittura scesi in piazza e hanno manifestato la propria ira con un gran fracasso di mestoli e di pentole: episodio senza precedenti nella storia islandese, ora ricordato da alcuni come "la nostra rivoluzione".
Essendo questo l´umore collettivo, non sarebbe sorprendente se in futuro la popolazione mettesse alla porta i funzionari del Fondo monetario, cui il governo al momento presta ascolto. Bisogna considerare che i 320mila islandesi sono riusciti a darsi, benché pochi, tutto quello che ha una grande nazione, e spesso in meglio. Dodici università, uno stato sociale intelligente e delicato, una sanità che contribuisce al primato degli islandesi (i più longevi della Terra), perfino un´orchestra sinfonica. Ma quanto di questo sopravviverà alla terapia classica del Fondo monetario - privatizzare molto, tagliare il possibile?
Stiamo riscoprendo i valori fondamentali, dice Alda Sigmundsottir, autrice di un elegante blog (The Iceland weather report) e di un ottimo libro sulla crisi. Molti tra i valori che hanno permesso agli islandesi di tenere testa ad una natura maligna - tenacia, coesione, duttilità - sono gli stessi che la crisi ora mette alla prova. Ma per attenuare il peso del debito l´Islanda dovrà trovare una nuova vocazione economica. La sta cercando nella "creative economy", ad alto valore aggiunto. Non senza qualche indecisione. Con Norvegia e Giappone, l´Islanda continua a violare il bando sulla caccia alle balene con una quota annua di 30 animali, le fiduciose Minke Whales (balaenoptera acutorostrata) di cui ho visto il dorso nero e la pinna a forma di piccola mezzaluna affiorare nelle acque a sei miglia da Reykjavik. I ristoranti ne offrono bistecchine al sapore di fegato che non incontrano i gusti del pubblico, ragione per la quale la carne finirebbe per gran parte nei mangimi per maiali prodotti in Europa. La caccia danneggia l´immagine dell´Islanda ma qualcuno ci guadagna. Soprattutto Kristjan Loftsson, proprietario di quattro baleniere. Quando gli è stato fatto notare che è un peccato ammazzare mammiferi così intelligenti, ha risposto così: «Fossero intelligenti come dite, non verrebbero nei mari d´Islanda».