Alessandro Carlini, Libero 30/8/2010, 30 agosto 2010
DAI MAYA ALLO CHEF TV IL GUSTO MALATO DELLA CARNE UMANA
«Il cannibalismo va contro la nostra istruzione e morale religiosa e non contro la natura, perché l’azione di mangiare la carne di un altro essere umano è assolutamente naturale se compiuta allo scopo di nutrirsi (e quindi di sopravvivere) in mancanza di altre fonti di sostentamento». Parola di Ruben De Luca, criminologo e docente alla Sapienza. È l’introduzione di Cannibali. Le pratiche proibite dell’antropofagia, lo scabroso saggio della psicologa Chiara Camerani (Castelvecchi, pp. 300, euro 22). Il professor De Luca vuole dire che se ti trovi in un’isola deserta senza cibo, diventa naturale “assaggiare” il proprio compagno di sventura: d’altronde l’uomo è un carnivoro, e allora in casi estremi, estremi rimedi.
I casi sono innumerevoli, e si possono rintracciare fin dai primordi della storia. È il cannibalismo «per sopravvivenza». Altra cosa è il cannibalismo criminale, di chi gode a uccidere e mangiare le proprie vittime. Poi c’è l’antropofagia rituale, tesa a rompere un tabù nel tentativo così di superare le barriere del bene e del male e raggiungere un’estasi “divina”. Tutte tipologie ampiamente analizzate, con taglio fra lo scientifico e il narrativo, dall’autrice.
La storia, antichissima, dell’antropofagia è, a suo modo, affascinante. Già il nome, “cannibale”, indica un’origine interessante, risalente a Cristoforo Colombo. Fu infatti il navigatore italiano a coniare il termine, che deriverebbe dalla tribù dei Carib nelle Indie Orientali. Assimilando il cannibalismo ritualistico degli indigeni al comportamento dei cani, chiamò “cannili” coloro che si cibavano di carne umana. Lo storpiamento del nome in cannib divenne cannibales.
Colombo aveva potuto vedere come le popolazioni del Sud America, fra cui gli Aztechi e forse gli stessi Maya, fossero quasi tutte dedite al cannibalismo. Molte volte l’antropofagia rientrava in rituali per ingraziarsi le divinità. Oggi residui di questi costumi sopravvivono in alcune sperdute tribù della Nuova Guinea, come i Korowai. La Camerani ricorda che alcune forme di estremismo politico hanno utilizzato il cannibalismo come metodo di terrore: ad esempio, i Khmer Rossi cambogiani hanno riportato in uso un antico rito che prevede l’estrazione della cistifellea a persone ancora vive. L’organo era poi seccato e mangiato, nella convinzione che potesse curare qualsiasi malattia: per questo scopo numerosi prigionieri furono sventrati vivi.
Poi c’è l’antropofagia per necessità, come nel famoso caso dei sopravvissuti all’incidente aereo avvenuto nel 1972 sulle Ande, reso celebre nel film “Alive”.
Il libro della Camerani, però, al di là delle scorribande storicoculturali, si sofferma ampiamente sulle vicende dei cannibali dei nostri giorni. Il tema attira molto, come dimostra il successo del film “Il silenzio degli innocenti” con Anthony Hopkins nei panni di Hannibal Lecter. L’autrice però si occupa soprattutto di storie vere: Dahmer, Chikatilo (il mostro di Rostov, immortalato nel film “Evilenko, il comunista che mangiava i bambini”), Rakowitz. Leggere le gesta di questi assassini provoca un senso di sgomento e sconforto: uno dopo l’altro si passano in rassegna i luoghi dell’orrore, le vittime, le schermaglie processuali e le improbabili linee difensive degli avvocati.
Un caso a parte è quello di Issei Sagawa, un giapponese colto e di buona famiglia che, «nonostante abbia ucciso e mangiato una sua compagna di università, è attualmente un uomo libero, un artista quotato e un opinionista ricercatissimo», come scrive la Camerani. La sua ossessione per le donne occidentali si manifestò ben presto con il desiderio di cibarsene. Un sogno che diventò realtà quando nel 1981 si trovò per studio alla Sorbona di Parigi e incontrò l’olandese 25enne Renèe Hartevelt. Dopo una corte spietata, ma senza esiti, il giovane nipponico passò all’attuazione del suo piano. La uccise e si cibò di quella carne bianchissima. Scoperto dalla polizia francese, si appellò alla malattia mentale e venne rinchiuso in un manicomio. Rimpatriato, grazie ai buoni uffici del ricco e influente padre, scontò solo 15 mesi di reclusione. In libertà, diventa un ospite gettonatissimo nelle tv nipponiche, dove a volte, beffa nella beffa, si esibisce come chef.
Per nulla pentito, ha anche lanciato una nuova provocazione: vuole essere mangiato da una donna europea. Si descrive così: «Sono una creatura romantica in un’epoca in cui il sentimento è inaridito». Un sentimentale d’altri tempi, insomma.