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 2010  luglio 30 Venerdì calendario

Brigandì, il terrone scudo del Senatur - E dopo l’avvocato di Silvio, il fidato Ghedini, spunta quello di Umberto

Brigandì, il terrone scudo del Senatur - E dopo l’avvocato di Silvio, il fidato Ghedini, spunta quello di Umberto. L’alba di Berlusconi non era sorta quando lui approdò alla corte dell’ancor giovane capo della Lega, reduce da un successo elettorale ancora molto lombardo-veneto e poco o nulla piemontese. Anzi, nella città della Mole il candidato di Bossi, il futuro ministro oggi desaparecido Domenico Comino, aveva rimediato una batosta dai cavalli della sinistra, Novelli per l’estrema e Castellani per quella che guardava al centro orfano del pentapartito. Comino non andò al ballottaggio per un pugno di voti, e Gipo Farassino, lo chansonnier papà della Lega torinese, si rivolse al «terrone», come lo chiamava lui, per un improbabile ricorso. Finì male per Comino, bene per Brigandì: pur nella sconfitta s’era battuto da leone, e il Senatùr gli concesse una seconda chance. Oggi l’avvocato torinese segue tutte le sue cause, e si vanta di non aver perso mai. Brigandì viene da Messina. In Piemonte arrivò piccolissimo, anche se a vederlo oggi si fatica a credere che lo sia stato, con il papà ispettore del lavoro, la mamma e un po’ di fratelli. Non erano tempi di bamboccioni: a 21 anni aveva in tasca una laurea in giurisprudenza, il passaporto per farsi largo in una città cresciuta male e troppo in fretta. La chiamata di Gipo lo colse con uno studio avviato, moglie e una figlia piccola, Valentina, che aveva voluto far nascere a Messina, l’inseparabile cane Max (tutti i suoi amici a quattro zampe si sono chiamati così). Alle spalle una discreta carriera da giocatore di football americano, hobby un po’ costosi a quattro e due ruote. Il ritratto del quarantenne arrivato. Quel giorno iniziò la seconda vita. E sì, perché di lì a qualche mese firmò la tessera della Lega e ancora Gipo si convinse a candidarlo alle politiche. Un trionfo per tutto il centro-destra piemontese: Chiamparino perse contro lo psicologo Meluzzi, e lui si portò a casa il seggio a Palazzo Madama. Ma con il seggio arrivarono i guai. L’avvocato un po’ guascone che piaceva a Bossi per la battuta pronta e spesso non raffinata, l’inguaribile ottimismo e l’innata propensione verso il gentil sesso, vide finire il matrimonio (da un’altra relazione è poi nata la seconda figlia, Camillina) e prevedibilmente scivolò nelle cadute di gusto. Come quando le telecamere di «Striscia» lo pescarono a improvvisare un giochino osceno nel bel mezzo di un dibattito parlamentare, con gran divertimento dei colleghi in camicia verde. Non era che l’inizio. Eletto in Consiglio regionale per la legislatura successiva, fu coinvolto in una brutta storia di tangenti legate all’alluvione che aveva spazzato mezza periferia di Torino. Arrestato, finì ai domiciliari e il padre, uomo tutto d’un pezzo, ne morì. A poco gli valse la solidarietà di qualche amico, anche del più importante: «Se non è una questione di donne, Matteo è innocente» disse Bossi. E per i leghisti fu la Sentenza. Non per i giudici di primo grado, che infatti lo condannarono. Salvo essere smentiti da Appello e Cassazione. Assolto con formula piena. E così, costretto a passare dalla prigione e a saltare il turno di Romano Prodi, il 2008 rivide l’ex senatore pronto a diventare deputato, prudentemente in un collegio delle Marche. E poi ad assumere incarichi nella commissione Giustizia e in quella contro gli errori medici. Nel frattempo pure Berlusconi, che prova naturali simpatie per chi fa a botte con i magistrati, lo ha preso in considerazione, affidando ai suoi consigli il ministro prediletto Angelino Alfano. E assicurando all’amico Umberto il semaforo verde per la nuova avventura.