Alessandro Trocino, Corriere della Sera 30/07/2010, 30 luglio 2010
I FINIANI SI CONTANO: PRONTI AL GRUPPO. A MONTECITORIO NUMERI «PERICOLOSI» —
Il pallottoliere in Transatlantico non ce l’ha nessuno, ma nel pomeriggio Flavia Perina, direttrice del Secolo d’Italia, e fedelissima di Gianfranco Fini, lo consiglia caldamente agli ex colonnelli di An: «Dicevano che eravamo quattro gatti: Berlusconi dovrebbe andare a dire due paroline a chi gli ha fatto i conti così male». In effetti il grafico delle adesioni al documento finiano segna subito un picco notevolissimo. Nulla di sicuro, perché i numeri ondeggiano, le veline si moltiplicano, piovono conferme e smentite e anche gli ammiccamenti vengono rubricati come sì. E perché una cosa è firmare un documento più o meno generico, altra cosa iscriversi a un gruppo autonomo. Ma quando si arriva allo show down finale, con il divorzio serale, le lettere di dimissioni dal gruppo Pdl cominciano ad arrivare sul tavolo del presidente della Camera. Il gruppo autonomo di Montecitorio è più che solido e anche se non saranno 34, come si dice, sono comunque numeri consistenti (il minimo sarebbe di 22 e di altri 8 al Senato). Abbastanza perché si concretizzi la minaccia di far traballare il vascello della maggioranza berlusconiana.
Si fa presto a dire finiani, ché tra moderati e oltranzisti, falchi e colombe, pontieri e pasdaran, spavaldi e terrorizzati, la tipologia è vasta e i confini labili. Ma quando Berlusconi annuncia sanzioni, Fini stringe la corda e riunisce per l’ennesima volta i suoi alla Camera. Tra i firmatari del documento ci sono i membri del governo, come il ministro Andrea Ronchi, il viceministro Adolfo Urso e i sottosegretari Menia e Bonfiglio. Resta alla finestra, fino all’ultimo, il pontiere Andrea Augello.
Alla voce di un possibile appoggio esterno, con fuoriuscita di ministri e sottosegretari dal governo, Ronchi reagisce sdegnato: «Ma che siete impazziti? Non se ne parla neanche». E in effetti la loro presenza nell’esecutivo per ora non viene contestata neanche da Berlusconi.
Bisognerà però vedere se il divorzio finirà per condurre tutti alle urne anticipate. Quel che è certo è che Fini e tutti i «finistei», come li chiamano sprezzantemente i navigatori del berlusconiano Spazio Azzurro, non hanno alcuna intenzione, per ora, di far cadere il governo. E, anzi, assicurano fedeltà all’esecutivo. Come spiega Ronchi: «Massima lealtà». E come conferma Urso: «La nostra Bibbia resta il programma, che contiene l’indicazione come premier di Berlusconi».
Chi potrebbe aver la tentazione di far saltare tutto, però, è proprio il Cavaliere: «O è convinto davvero di rivincere le elezioni — spiega Benedetto Della Vedova, laico e liberale Pdl, pronto ad andarsene— oppure è un atto di pura follia». Con l’ex radicale sarebbero sul punto di andarsene alcuni ex forzisti, compreso Beppe Pisanu. Tra i critici dell’era berlusconiana c’è anche Santo Versace, che Nicola Cosentino l’avrebbe dimissionato «già un anno fa», il ddl intercettazioni «demolito» e Lunardi «allontanato da tempo». Chiamato come tutti al telefono da Fini, il deputato stilista è cauto: «C’è un problema di serietà, visto che qui a Montecitorio mi ha portato Berlusconi». Si vedrà.
Finiano doc è invece Luca Barbareschi, che si auto proclama «un pasdaran»: «Berlusconi? Un buon imprenditore, ma come politico ha fallito. Io con Fini ci andavo a braccetto per strada già vent’anni fa, quando mi davate tutti del fascista». All’attore Barbareschi quella che si consuma in Parlamento sembra «più una farsa che una tragedia»: «Manca l’epos, qui non c’è nessun Riccardo III, c’è solo cupidigia dell’asservimento». Che Berlusconi sia maggioranza nel Paese e che Fini per ora non lo sia, non interessa Barbareschi: «Hitler è andato al potere democraticamente, no? Il popolo, a volte, non capisce un cazzo».
Ma prima di preoccuparsi del popolo, c’è da capire come organizzare la nuova opposizione interna in Parlamento, che farà sentire la sua voce sui temi sensibili, dalla giustizia al federalismo. Al Senato c’è qualche problema in più. Andrea Augello, che ha un seguito di quattro senatori (necessari per superare il tetto di dieci), ha più di una perplessità: «Quando si fa una scissione, si fa per far cadere il governo. Perché fare un gruppo per sostenerlo? Se c’è un casus belli, è un’occasione di guerra non di pace». Ma, a sentir lui, il casus non sembra esserci fino in fondo e le perplessità sono molte.
Nessun dubbio, invece, per i pasdaran, come Italo Bocchino, che potrebbe guidare il gruppo alla Camera. E come Fabio Granata, che ieri alla Camera raccontava l’accoglienza fuori da Montecitorio: «Quando mi vedono ormai mi salutano con il pugno chiuso».
Alessandro Trocino