Stefano Folli, Il Sole-24 Ore 30/7/2010M, 30 luglio 2010
UNA VITTORIA DI PIRRO PER IL PREMIER
La logica politica suggeriva un accordo o almeno un patto di convivenza che stabilisse le regole della reciproca sopportazione tra Berlusconi e Fini. All’opposto c’era l’ipotesi della scissione immediata e concordata dei due tronconi, Forza Italia e An, da cui era nato, fra eccessive contraddizioni, il Popolo della Libertà. Nella sostanza il vertice del partito berlusconiano ha scelto una terza via, come tale non priva di qualche ambiguità e di parecchi rischi.
Nessuna espulsione, ma una sfida frontale al presidente della Camera, una totale delegittimazione dell’uomo che avrebbe creato un «partito nel partito» e avrebbe cessato di rappresentare un punto d’equilibrio istituzionale. Può darsi che questa scelta berlusconiana sia efficace per regolare i conti con un avversario interno ormai intollerabile, lo è molto meno per garantire all’esecutivo e alla legislatura un cammino sereno.
Si potrebbe dire che il lungo, estenuante duello si conclude con la sconfitta di Fini, ma quella di Berlusconi è più che altro una vittoria di Pirro. È tutto da dimostrare infatti che ne verrà qualcosa di positivo per la stabilità e l’azione di governo. Aspettiamo, per capirlo, di vedere cosa accadrà nelle prossime ore. Una ricucitura a questo punto è davvero inverosimile. Ma quanti andranno a costituire il gruppo autonomo (di fatto una scissione obbligata), nel segno del presidente della Camera? È un punto cruciale. Se a Montecitorio saranno all’incirca quindici, essi costituiranno poco più di una spina nel fianco della coalizione, ridotta all’asse Berlusconi-Bossi. Se invece saranno una trentina, o magari trentacinque, allora l’ottimismo ostentato dal premier dovrà fare i conti con una realtà amara. Trenta o più dissidenti organizzati sono in grado di sottrarre al governo la maggioranza assoluta alla Camera. Con una serie di conseguenze che il presidente del Consiglio farà bene a non sottovalutare. In primo luogo, il gruppo finiano resterà nell’ambito della maggioranza (anzi, per il momento non si collocherà formalmente nemmeno fuori dai confini del Pdl). Il che significa che Berlusconi dovrà negoziare di continuo con Fini l’appoggio a questo o quel provvedimento governativo. Il federalismo fiscale, le questioni della giustizia e altre misure qualificanti, avranno bisogno di numeri certi. Una situazione da cui trae un evidente vantaggio Casini. Ma il rischio per il premier è di dover trattare ugualmente con Fini, specie se quest’ultimo resterà sulla poltrona di presidente della Camera, come è ben intenzionato a fare nonostante tutto.
Certo, tutto dipenderà da quanti parlamentari si riconosceranno alla fine nella leadership finiana. E queste sono le ore in cui molti stanno mettendo sulla bilancia le proprie convenienze e ambizioni. Ma la raccolta preliminare di firme ha dato un risultato più che discreto per i ribelli e questo è un dato allarmante per il premier. In ogni caso, la frattura tra i due co-fondatori del Pdl è un evento che cambia lo scenario politico e rende il governo più debole, non più forte. Tanto è vero che lo stesso Berlusconi si era prodigato nelle settimane scorse per allargare l’area del consenso, non certo per restringerla. La ragion d’essere di una coalizione in buona salute tende all’allargamento, così da rappresentare una porzione via via più ampia e rappresentativa del paese. D’altra parte, i progetti di Berlusconi (la riforma istituzionale e quella della giustizia) richiedono una maggioranza compatta, sì, ma anche sicura dei suoi grandi numeri. Tutto il contrario di quello che sta accadendo. Senza i finiani e con Casini che non ha voglia di varcare il portone d’ingresso, la coalizione dovrà combattere per la sua sopravvivenza. Qual è allora il senso della rottura? Uno, senza dubbio: restituire a Berlusconi il pieno controllo del suo partito. Ma a quale fine, se poi occorrerà mercanteggiare lo stesso ogni punto del programma in Parlamento e con i gruppi autonomi? La vicenda delle intercettazioni è emblematica. Senza i finiani non è che l’epilogo di quella controversa battaglia sarebbe stato diverso, cioè più favorevole a Berlusconi. Sarebbe stato identico.
E ancora: anche ammettendo che ora il clima nel Pdl sarà più sereno, è chiaro che la tensione si trasferirà alla Camera. Si dirà che Fini non può rimanere presidente dell’assemblea (Berlusconi lo ha già fatto capire) e quindi prenderà il via un ulteriore braccio di ferro. Da un lato serrati negoziati sulle leggi da approvare, dall’altro conflitti e tensioni intorno allo scranno presidenziale: non è il medesimo copione che il premier ha cercato di esorcizzare ieri sera?
In definitiva la sfida alla minoranza interna ha un senso solo se il presidente del Consiglio pensa alle elezioni anticipate in tempi brevi. Non se vuole illudere se stesso che adesso comincia l’età dell’oro del governo, ma se prepara il terreno per il voto. Si dà il caso però che Bossi non abbia voglia di avventure elettorali perché guarda al suo scopo, il federalismo fiscale. E tanto meno avranno voglia di correre alle urne i sostenitori di Fini, bisognosi semmai di una diversa legge elettorale. Da oggi comincia una nuova partita e non è detto che ieri notte Berlusconi abbia giocato al meglio le sue carte.