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 2010  luglio 30 Venerdì calendario

«Cattelan? Arte che nasce già morta» - Quando nel 1972 asse­gnarono il Booker Pri­ze al suo G

«Cattelan? Arte che nasce già morta» - Quando nel 1972 asse­gnarono il Booker Pri­ze al suo G.­una delle più belle variazioni letterarie su Casano­va, pari a quelle di Schnitzler e Sándor Márai, e tra i più coinvol­genti romanzi sul desiderio ses­suale maschile­ lui, alla premia­zione, disse: «Per il mio proget­to sui lavoratori migranti d’Eu­ropa ho bisogno di avere più soldi. Il movimento delle Pante­re Nere ha bisogno di soldi per il suo giornale e per le sue altre attività. Dividere il premio si­gnifica avere gli stessi obiettivi. La chiarezza è più importante del denaro». E fu così che divise il suo premio, già allora una bel­la cifra in decine di migliaia di sterline. John Berger, nato nel 1926 a Londra, è fatto così. Non a caso uno dei suoi maestri è Victor Serge («Lo sto rileggen­do in questi giorni, ci racconta Berger. Memorie di un rivolu­zionario e Il caso Toulaev . Gran­dissimo scrittore. Sto ripren­dendo anche il vostro Rocco Scotellaro, per cui ho sempre nutrito molto interesse»). Persino i titoli dei libri di Ber­ger (romanzi, saggi, racconti, articoli, spesso sul mondo del­­l’arte e della comunicazione) parlano da sé e nello stesso to­no della dichiarazione del Boo­ker Prize. Ascoltateli: Una volta in Europa , Lillà e Bandiera , Le tre vite di Lucie (cioè la trilogia Into Their Labours , dedicata al mondo contadino), E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto , Festa di nozze , Sacche di re­sistenza , Qui è dove ci incontria­mo , Abbi cara ogni cosa e infine Presentarsi all’appuntamento (appena pubblicato da Scheiwiller), a cui vogliamo ag­giungere Da A. a X. Lettere di una storia (sempre Scheiwil­ler) e il titolo in uscita a settem­bre per Corraini: Distendersi a dormire, scritto insieme alla fi­glia Katya: li potete incontrare entrambi al Festival di Manto­va. Troviamo - in questi titoli ­una intransigenza sentimenta­le che pe­rmane anche una vol­ta finita la lettura: a Berger si ar­riva, ma si torna anche, nei mo­menti difficili. La sua autono­mia di pensiero è la stessa di Charles Ferdinand Ramuz, per esempio, o di altri scrittori «di montagna». Di fatto, John Ber­ger vive a Quincy, nella Savoia Francese. Perché questo “ritiro”, da trentacinque anni? «Volevo capire il lavoro dei contadini per scrivere la mia tri­logia e mi sono ritrovato qui, a ottocento metri di altezza in un villaggio di cento persone. Sui contadini si è scritto poco, seb­bene formino la maggior parte della popolazione mondiale, che siano o meno proprietari della terra che lavorano. Mi fa piacere che la trilogia sia stata tradotta in Cina, America Lati­na, Turchia e in molti altri posti dove chiunque, anche i conta­dini, può leggerla e ritrovarci­si ». Spesso lei racconta qualche aneddoto della sua vita con­tadina persino negli articoli più “politici”... «In questo momento la mia casa è circondata da mucche, fa caldo, ci sono molte mosche sul vetro delle finestre. Oggi po­meriggio andrò con un amico a raccogliere il fieno nei campi, per cui adesso, se aprissi la fine­stra, sentirei l’odore del fieno ta­gliato. Quattro giorni fa, per rac­contarne un’altra, ero in un al­peggio a 1500 metri di altezza e c’era silenzio.Non era un silen­zio assoluto - sentivo i campa­nacci delle mucche, alcune vo­ci umane, canti di uccelli - ma era un silenzio... rassicurante. Un silenzio che può fare com­pagnia. Mi sembrano, questi, argomenti concreti, non astrat­ti. Come vorrei fosse la politi­ca ». Un metropolitanola vedreb­be diversamente, più cere­bralmente. «Libero di farlo. Ma aggiungo che non si considera mai abba­sta­nza quanto la vita in monta­gna sia partecipativa, estrema­mente sociale. Quando ci si ve­de non si parla solo di che tem­po farà in valle domani, ma an­che di questioni politiche. Da questo punto di vista la città ­che pure frequento, come Pari­gi - è in misura maggiore il luo­go di una certa solitudine». È anche il luogo di un certo deterioramento della quali­tà dell’osservazione. Uno dei temi del suo ultimo libro, sottotitolato Narrare le im­magini. «Premetto di non essermi mai considerato un critico d’ar­te o un esperto di mass media. Sono uno storyteller. Tuttavia è vero,l’osservazione,in campa­gna, è un’attività costante: si guarda in giro per vedere cosa porterà il vento, si osservano i raccolti per vedere come cre­scono, gli animali per vederne lo stato di salute. L’osservazio­ne diventa così un dialogo. Le immagini che osserviamo in città, invece, sono una titillazio­ne istantanea, un erotismo del­­l’attimo, sono basate sul con­cetto di istantaneità. Non sono né bidimensionali né tridimen­sionali, ma hanno un elevato potere di creare dipendenza». Nelle metropoli si “vende” beneancheuna certa arte ba­sata sulla trasgressione. La recente polemica sul dito medio di Maurizio Catte­lan... «C’è un’arte che è morta nel momento stesso in cui viene creata. Ce n’è un’altra vibrante e viva anche a distanza di seco­li. L’arte è un fenomeno che esi­ste da trentamila anni. Di solito evito di concentrarmi sugli ulti­mi dodici mesi». Però lei è anche giornalista, scrive interventi che entra­no nel vivo dell’attualità... «Tra la fine dei ’40 e l’inizio dei ’50 lavorai con George Orwell al Tribune : quando gli consegnavo i miei pezzi dove­vo stare a lungo davanti a lui a sentire come avrei potuto scri­verli meglio. Ho imparato mol­to. Gli articoli che scrivo oggi hanno una forma autonoma ri­spetto al luogo dove vengono pubblicati: sono saggi brevi. Na­sc­ono perché incontro qualco­sa davanti alla quale non posso restare zitto.Se lo facessi,l’umi­liazione sarebbe troppo forte. Talvolta me li pubblicano tal­volta no. Spesso li riscrivo cin­que o sei volte, per ottenere i massimi livelli possibili di eco­nomicità e precisione. Talvolta mi è più semplice scrivere una poesia che un articolo per un quotidiano». Il suo prossimo libro? «Le rivelo persino il titolo: Vuoi fare un giro, Bento? Bento è il diminutivo di Benedetto. Ba­ruch. Cioè Spinoza.C’est tout».