Franco Venturini, Corriere della Sera 29/07/2010, 29 luglio 2010
PERCHÉ DOBBIAMO RESTARE
Ancora una volta suona per noi in Afghanistan l’ora del cordoglio. E si riaffaccia, come è ben comprensibile che avvenga, la voglia di chiederci se abbia ancora senso versare sangue italiano in quelle terre lontane, se la guerra non sia ormai persa, se non sarebbe più saggio per i nostri soldati fare i bagagli e tornare a casa. A questi pur leciti interrogativi torniamo a rispondere che l’Italia non deve, se vuole tutelare i suoi interessi, anticipare per conto proprio quella exit strategy che già tutti i Paesi della Nato— a cominciare dall’America— hanno inserito tra i loro obiettivi strategici.
Ricapitoliamo. La guerra in Afghanistan (perché tale è, ed è ipocrita anche se costituzionalmente prudente negarlo) nasce come risposta al devastante attacco terroristico delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, un attacco che gli uomini di Al Qaeda allora ospiti dei Talebani, a beneficio dei dubbiosi, hanno ripetutamente rivendicato. La guerra conferma da subito la fama dell’Afghanistan come «tomba degli imperi», ma George Bush ci mette del suo distogliendo forze per volgersi contro l’Iraq. La guerra ha un filone parallelo di assistenza, ricostruzione, istruzione, modernizzazione, e sarebbe ingeneroso non ricordarlo. Ma molto di quel che doveva arrivare agli afghani è stato gestito male, deviato, speso con egoismo. E anche per questo, oltre che per le continue perdite civili provocate dagli aerei alleati, il consenso popolare, senza necessariamente andare ai talebani, non è stato concesso a chi quei talebani combatte. Tanto più che per molti gli stranieri vanno comunque espulsi, e che il narcotraffico è ormai il principale e più conveniente sostegno del nazionalismo. A conti fatti, la guerra sembra avviata verso un’ «afghanizzazione» della sicurezza sul terreno che fa certo comodo ai governi occidentali, ma che, anche senza evocare il Vietnam, suona come una previsione di sconfitta con annesso meccanismo salva-faccia.
E allora, cosa ci facciamo laggiù? L’Italia, che a fine anno avrà circa 4.000 uomini in campo, agisce nell’ambito Isaf, emanazione della Nato. La guerra, proprio perché va male, è diventata un test per disegnare le gerarchie internazionali in un Occidente oggi mal definito, e questo non soltanto nei confronti degli Usa ma anche tra i principali soci europei. Si può e si deve, beninteso, dire sovranamente la propria, parlare francamente con gli alleati, ma una svolta politica anti-impegno in Afghanistan — oggi Pdl, Udc e Pd sono tutti a favore seppure con accenti diversi, mentre è contrario Di Pietro e diffuse perplessità albergano nella Lega — avrebbe l’effetto di «legare il braccio dietro la schiena» ai nostri soldati (lo si diceva degli americani in Vietnam, appunto) e finirebbe col portare a un ritiro unilaterale. Il quale ci declasserebbe nel mondo, e avrebbe conseguenze anche sulla nostra economia incidendo così sulla vita di ognuno di noi.
Fedeltà ideale alle alleanze, lotta al terrore e interessi pratici: nel cercare ragioni per restare in Afghanistan fino a quando ci resteranno gli altri, l’Italia ha soltanto l’imbarazzo della scelta. Anche se Wikileaks diffonde a tutti quel che soltanto alcuni sapevano già da tempo, e appesantisce così la battaglia delle opinioni pubbliche. Anche se in altri momenti politici— con Prodi a Palazzo Chigi, è sempre Wikileaks a testimoniarlo — un governo di coalizione con l’estrema sinistra e dotato di una maggioranza parlamentare quasi inesistente doveva logicamente muoversi con grande discrezione. Oggi esistono turbolenze di segno diverso. Ma sarà il caso di ricordare che esse non devono investire l’Afghanistan. Nel nostro interesse.
Franco Venturini