Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 29/07/2010, 29 luglio 2010
I CACCIATORI DI BOMBE INNAMORATI DEL SOLE DI HERAT. DICEVANO: «NON SEMPRE POSSIAMO USARE IL ROBOT»
«Sarebbe più sicuro utilizzare il robot telecomandato per fare brillare gli ordigni. Ma non sempre è a disposizione, oppure diventa troppo pericoloso utilizzarlo nel cuore dei centri abitati. Ci sarebbero inevitabilmente vittime tra i civili. E allora tocca a noi andare e fare il lavoro di disinnesco con le nostre mani», parlava così pochi mesi fa il maresciallo-capo Mauro Gigli, 41 anni, del 32° Genio Guastatori di stanza a Torino, sposato e padre di bambini piccoli, morto ieri con il commilitone Pier Davide De Cillis nella zona di Herat. Sembrava più giovane della sua età. «Il sole dell’Afghanistan», diceva sorridente. Ci era venuto per ben cinque volte in missione. Veterano del Mozambico e della Bosnia, conosceva bene il suo lavoro e i rischi immensi che comporta.
«Sminatore», omeglio «artificiere», secondo la definizione dei manuali militari delle attività delle unità incaricate di «bonificare» i terreni infestati da mine e «ied», che sta per «improvised explosive devices», come il gergo Usa nei teatri di Iraq e Afghanistan ormai ha abituato a chiamare gli oggetti inesplosi e le bombe artigianali di ogni tipo.
Se gli chiedevi di spiegare come funzionavano le «ied», lui restava sulle generali. «Si deve fare attenzione a divulgare queste notizie. Poi magari qualche terrorista le usa per fare danni in Italia», rispondeva. Un ufficiale di grande esperienza: i suoi compagni sottolineano che si era fatto le ossa in 13 missioni all’estero. E aveva imparato che il segreto per resistere alle situazioni di stress è stare bene con i propri soldati. «Un amico, un compagno, sempre pronto ad aiutare, sempre disponibile, calmo nelle emergenze», dicono di lui.
Sono eroi sconosciuti come Mauro Gigli a costituire la vera avanguardia di ogni esercito in terra straniera. Più importanti delle unità corazzate e dei gruppi speciali combattenti, specie quando di fronte a loro non ci sono soldati regolari, ma la guerriglia che attacca e fugge, colpisce e poi si mischia alla popolazione civile. Gli sminatori ci sono sempre. Non c’è convoglio militare delle truppe alleate in Afghanistan che non ne abbia a bordo almeno un paio ogni volta che esce dalle basi. A Kabul, tra i primi circa 300 soldati italiani arrivati nel dicembre 2001, c’erano decine di uomini del Genio. Il loro compito: iniziare a sminare la capitale e soprattutto i quartieri dove avrebbe dovuto installarsi il contingente internazionale. «Da allora a oggi il nostro lavoro è mutato. Le grandi città afghane sono ormai bonificate e così anche le campagne attorno. Ma le mine restano insidiose nelle zone agricole. E soprattutto ora ci sono le ied dei talebani. Sono diventati bravissimi nel costruirle. Artigianali, rudimentali, ma efficienti. Costituiscono il pericolo maggiore per le truppe Nato-Isaf, ma anche per i civili», ci spiegava pochi mesi un artificiere veterano della Folgore a Kabul. Di loro si parla poco. Negli Stati Uniti sono stati sotto la luce dei riflettori con la vittoria dell’Oscar per The Hurt Locker, il film che racconta in modo drammatico e realistico la vita di un’unità di sminatori a Bagdad.
La tensione continua, la necessità di aggiornarsi con le tecniche sempre più sofisticate dei talebani, sono parte integrante della sfida quotidiana. Il comando italiano di Herat è in stretto contatto con quelli americano, britannico e canadese nella regione meridionale di Helmand-Kandahar da quando si è verificato che il meglio della guerriglia talebana (collegata alle basi in Pakistan) si stava espandendo verso le regioni occidentali del Paese. «Gli italiani devono sempre più fronteggiare pericoli e insidie, comprese le nuove ied, che prima si trovavano solo nelle regioni meridionali», ammettono i comandi di Herat. L’esperienza italiana ha comunque ormai radici lontane. Risale alla necessità di bonificare la penisola dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si è poi affinata con le prime missioni in Libano nel 1982 ed è diventata una questione di vita o di morte nello scenario dell’ex Jugoslavia. A Nassiriya nel primo anno emezzo seguito l’invasione della primavera del 2003 il Genio italiano ebbe un ruolo fondamentale nel creare le nuove unità di artificieri iracheni e bonificare i siti archeologici. Poi c’è stato l’intervento sullo scenario libanese dopo i 40 giorni di guerra tra Hezbollah e Israele nell’estate del 2006. Anche qui la prima urgenza per il contingente arrivato dall’Italia fu ripulire la zona da mine emicrobombe lanciate a grappolo dagli israeliani sui campi e i villaggi sciiti, specie negli ultimi giorni prima del cessate il fuoco.
Lorenzo Cremonesi