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 2010  luglio 29 Giovedì calendario

NASCITA DI UNA DITTATURA

Il romagnolo ha sempre più il vento in poppa. Tutto cospira in suo favore. Facta è impotente, Giolitti si è fatto da parte, i partiti tradizionali sono allo sbando. Non sapendo governare, litigano.
Il fondatore dei fasci con il suo ruggente pergamo, “Il popolo d’Italia”, e le sue invettive al fulmicotone contro tutti, sembra più temibile di quanto non sia. La sua forza è l’uso che ne fa. È un formidabile tempista, che stordisce e sgomenta, ma anche infiamma e convince l’opinione pubblica, che nessuno meglio di lui conosce e sa manipolare. Ha alle spalle trentacinque deputati, ma parla come se ne avesse dieci volte di più, come se avesse in Parlamento la maggioranza assoluta.
Il Paese è sempre più con lui e lui lo sente, lo sa, ne approfitta. Anche fisicamente ha il piglio del conducadòr. Cammina con passo marziale, ha la voce stentorea di chi, a suo tempo, seppe ubbidire e ora vuole comandare. Mette tutti gli avversari nello stesso calderone e li tiene in pugno. Conosce la tecnica del colpo di scena e del colpo di mano, e in questo, ma solo in questo, somiglia all’amico-nemico d’Annunzio, il solo che teme, anche se il pescarese non capisce niente di politica e il suo governo fiumano è stato una pagliacciata.
Benito ha dietro di sé le squadracce che menano le mani a più non posso, danno ordini a chi dovrebbe darli a loro. Si sentono dei padri eterni a cui tutto è lecito. Sono grandi frequentatori di casini, come il loro capo che, a detta della moglie, donna Rachele, ha “sempre il cannone carico” e non perde occasione di dare fuoco alle polveri.
Mussolini può contare sui poteri forti: la Corona, innanzitutto, gli Stati Maggiori, l’establishment economico e finanziario, l’alta burocrazia, la sussiegosa diplomazia.
Il povero Facta non sa più che pesci pigliare. Non se la deve vedere solo con una situazione disperata, che ha trascinato il Paese in un cul de sac; se la deve vedere anche con la moglie che non gli perdona di aver accettato l’incarico di formare il governo. Lui, ogni volta che lei lo rimbrotta, bisbiglia: “Si è fatto tardi, andiamo a letto”. Al povero Facta non resta che abbozzare. Ma non è così che si governa.
A complicare le cose, già complicate, lo sciopero generale di agosto che fallisce desolatamente. La redazione milanese della “Giustizia”, foglio socialista riformista, telefona al corrispondente romano: “Ne abbiamo pieni i c. dello sciopero. Ditelo chiaramente a Treves, a Turati e agli altri”. I socialisti non sono mai andati d’accordo, ma questa volta forse esagerano, almeno nel turpiloquio.
Finalmente Facta, con grande soddisfazione della moglie, getta la spugna che, per paura di bagnarsi, non aveva mai strizzato. La palla passa a Orlando, il presidente della Vittoria, cui non sembra vero di tornare al potere. Ma nemmeno lui ce la fa. È il turno di Bonomi, che non ha sorte migliore. Il re rilancia la carta Facta che, alieno com’è dalla responsabilità e succubo della moglie, sempre più invadente e dissuasiva, la lascia cadere. Ma “re Sciaboletta” è testardo e, vista la resistenza dal pupillo di Giolitti, si costerna al punto che gli occhi dell’augusto interlocutore s’inumidiscono. Di fronte a un simile spettacolo, pur sapendo, a casa, di dover fare i conti con la moglie, accetta l’incarico a malincuore.
Non cambia niente e la situazione peggiora. E questo imbaldanzisce vieppiù i fascisti che hanno deciso di marciare su Roma. A guidarli saranno Italo Balbo, che d’Annunzio ha definito “pizzo di ferro”, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, monarchico per la pelle, manesco e trombone, il taciturno Michele Bianchi e l’attempato generale Emilio del Bono, che ama far all’amore sui drappi neri stesi per terra. La data è fissata per il 28 ottobre e sarà preceduta da una grande adunata, quattro giorni prima a Napoli.
Nella città vesuviana si danno convegno sessantamila camicie nere. Il Duce, con i suoi pistolotti, con la potenza della voce e il bombastico ottimismo, li conquista. Gli applausi non si contano e il romagnolo li riscuote compiaciuto e sicuro di sé.
La situazione precipita e l’esecutivo si riunisce alle prime luci dell’alba del 28 ottobre, e decide lo stato d’assedio. Ma quando il re vede la bozza del proclama, sbotta: “Queste decisioni spettano soltanto a me... Dopo lo stato d’assedio non c’è che la guerra civile”. Facta non insiste e si dimette. Con gran soddisfazione della moglie. Quella sera andranno a letto più presto.