Folco Quilici, Il Messaggero 29/7/2010, 29 luglio 2010
L’UOMO, IL TORO, LA POLITICA
Avevo davanti a me un uomo giovane, molto giovane, forse aveva poco più di diciotto anni. L’attorniava una folla di persone. I suoi genitori, il suo impresario, due o tre giornalisti, fotografi e operatori televisivi. Il giovane stava per affrontare la sua prima corrida davanti al pubblico, numeroso e fanatico nella Plaza de Toros di Barcellona. Accanto al giovane torero mortalmente pallido, i genitori, evidentemente combattuti tra l’orgoglio di quella sorta di investitura, con il relativo afflusso di denaro.
Ma paralizzati dalla paura della morte.
Era lei, infatti, ad aleggiare in quella stanza, tra quella gente. Sì, lui era vestito a festa con uno splendido costume, dai ricami e dalle decorazioni dorate e argentate. L’impresario gli sussurrava parole all’orecchio, incoraggiamenti, consigli, corredandoli con risate fragorose.
Quando il giovane mosse il primo passo verso l’uscita dall’Hotel dove s’era tenuta la cerimonia, esibiva il più importante dono appena ricevuto di uno spadino dall’impugnatura argentata. Scoppiò un applauso.
Tutto il personale s’accalcava al cancello, dove alcuni turisti scattavano foto. Erano quindi molti i presenti in quel momento. Non v’era dubbio su chi fosse tra tanti, l’invitato più importante. Accanto al torero che debuttava, usciva dall’hotel e gli camminò accanto per scortarlo sino alla vicina Plaza de Toros: la morte.
Da quel momento in poi non l’avrebbe più lasciato solo. Anche di notte, sarebbe stata la compagna inseparabile dei suoi sogni.
Il giorno precedente, oltre la periferia di Barcellona, avevo visitato un luogo dove l’altro protagonista dello spettacolo/cerimonia detto corrida, trascorreva in pace e serenità i suoi ultimi giorni di vita, brucando in quel terreno coperto di prati, con alberi dalla larga chioma sparsi a poca distanza gli uni dagli altri, per creare vaste zone d’ombra.
In quell’immagine bucolica, tori imponenti brucavano l’erba tranquillamente, ogni tanto alzando e rivolgendo il loro tozzo muso verso chi li osservava al di là d’una salda staccionata. Un’immagine di vita, nulla lasciava immaginare l’obbligata mutazione: da pacifiche bestie al pascolo, in furie rabbiose, disperate. Costrette a un gioco dall’unica, inevitabile conclusione: la vittoria dell’uomo.
Adesso due esperienze diverse, opposte mi tornano alla mente leggendo dell’ordine emanato dalle autorità di Barcellona, la proibizione della corrida.
Si conclude così una polemica vecchia di decenni che vedeva opposti gli abolizionisti, decisi a cancellare una sfida così crudele e così ingiusta, con il toro sempre vittima, e i loro avversari. I tumultuosi e irrazionali, i sostenitori di quella sfida che mette in risalto non solo il coraggio di un uomo, ma la sua abilità, anzi il suo esibizionismo di matador al centro di uno spettacolo entusiasmante.
Senza scegliere una precisa posizione tra i due fronti, alcuni esperti d’antropologia culturale (spagnoli, ma anche francesi e anglosassoni) e senza esprimere un giudizio morale non gradito in alcuni ambienti scientifici, essi probabilmente piangono oggi calde lacrime su questo ulteriore divieto alle corride (quella di Barcellona non è la prima ad essere cancellata).
“Scompare uno dei più antichi riti tramandati dalla prima età dell’uomo”, ripetono gli antropologi irriducibili. Scompare, a loro avviso, quel confronto tra il bipede non dotato dalla natura di armi efficienti (noi) e l’animale ben più forte d’ogni altro, nella nostra area mediterranea, il toro. Sfidarlo e vincerlo era non solo prova di virilità, di forza, di coraggio, ma partecipazione a una ritualità collettiva probabilmente la più importante per chi viveva di caccia.
Come non vedere riflesso nell’arena della corrida il ricordo dello spazio chiuso tra rocce, dove si sfidava la morte? Un confronto di forza nello spazio diviso “tra ombra e luce” come vuole ancor oggi l’orario d’una corrida. Allo sfidante, l’uomo, il vantaggio d’essere in ombra: era così meno visibile dal suo avversario. Costretto invece a battersi con il sole negli occhi.
Alla lamentosa constatazione dell’antropologo ne aggiungo un’altra, personale. Tra cento diverse ritualità dell’uomo primitivo nostro antenato è riuscita a giungere sino a noi, quasi intatta, la più violenta. Una sfida con la morte.