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 2010  luglio 29 Giovedì calendario

Giusto vietare l’amore tra colleghi - Forse uomini e donne tor­n­eranno finalmente ad amar­si

Giusto vietare l’amore tra colleghi - Forse uomini e donne tor­n­eranno finalmente ad amar­si. Finirà così, si spera, la tetra epoca della diffidenza, della competizione, del guardarsi in cagnesco, del «siamo più brave noi» «no noi», che ci sta togliendo il sorriso, inevitabi­le complemento dello sguar­do di apprezzamento, o di in­tesa. Chi ci fa questo bel rega­lo, di riaprire la comunicazione eroti­ca tra uomo e donna? Un’enti­tà che riassume in sé tre carat­teristiche che la cultura politi­camente corretta considera la quint’essenza di ciò che non bisogna essere o fare: si tratta infatti di una multinazionale, di nazionalità svizzera, del set­tore del lusso, la Richemont, con sede a Ginevra. Come mai la Richemont potrebbe dare il via a un nuovo risveglio amo­roso? Con un ordine di servi­zio nel quale l’azienda, senza tergiversare, deplora flirt e re­lazioni sentimentali sul lavoro e prega chi vi si trovasse di rife­rirne ai superiori. I quali prov­vederanno con spostamenti, ammonimenti o licenziamen­ti. Naturalmente gli esperti del diritto del lavoro hanno subi­to strillato: «Ma non siamo mi­ca matti, qui non siamo in America, ma in Europa, ci so­no di mezzo le tendenze perso­nali, la vita affettiva dei dipen­denti, la protezione dei dati, l’azienda non può ficcarci il na­so ci mancherebbe» etc etc. Tutto vero, naturalmente. Pec­cato però che una legge che stabilisce nuovi diritti e doveri di datori di lavoro e dipenden­ti, proprio sul tema dell’amore in ufficio, è appena stata ap­provata dal Parlamento tede­sco: evidentemente la questio­ne n­on nasce soltanto dalla tra­dizionale «pruderie» della cit­tà di Calvino, e dalla presunta arroganza di una multinazio­nale, ma dal tema della cre­scente diffusione delle mole­stie di vario genere, e dei costi sia sociali sia aziendali che vi sono legati. Insomma: la cultu­ra del permissivismo e del «fac­ciamo finta che le persone sia­no asessuate e uguali, e tutto andrà bene», è fallita. Maschi e femmine sono diversissimi, questa differenza continua a interessarli e a turbare molto entrambi (il 12% delle unioni, e un numero ben maggiore di problemi sentimentali e ses­suali, nasce sul luogo di lavo­ro), e quindi sia la scuola sia l’azienda e gli Stati passano sempre più in fretta da un per­missivismo unisex a una politi­ca di attenzione. L’amore tra i dipendenti non può essere considerato ir­rilevante, come è accaduto nella cultura, anche azienda­le, dagli anni 70 in poi, anche la sessualità e i sentimenti so­no tra i fattori che più incido­no sul benessere delle perso­ne, e quindi sulla loro produtti­vità e la la loro efficienza. Inol­tre, la sovrapposizione tra i conflitti sentimentali-sessuali (generati dalla relazione amo­­rosa), e quelli aziendali e di car­riera costituisce un mixing esplosivo che, coperto e seda­to dalla cultura puritana che ha dominato i rapporti azien­dali fino alla metà degli anni 70, è poi esploso in un malesse­re crescente, di cui molestie, stalking, e «casi» aziendali di notorietà anche internaziona­le costituiscono le cronache quotidiane. La Richemont dunque, con quel misto di ingenuità, deter­minazione e solido buonsen­so che solo una multinaziona­le svizzera del lusso può avere (consciamente o no), ha sem­plicemente dato voce al bam­bino che vede che Il Re è nudo: il permissivismo non porta nulla, se non guai. Dal punto di vista dell’inconscio colletti­vo questo «proibire l’amore» equivale, del resto, a tornare a dargli importanza, valore, si­gnificato, potere. Quando, nei primi anni 60, bighellonavo per le strade, appunto, di Gine­vra, era di moda una canzone di Claude François che mette­va in guardia: «È pericoloso (in italiano) l’amour»; negli an­ni seguenti avrebbe fatto ride­re. Ma oggi (anche grazie a Ri­chemont), si torna a pensare che è vero: è pericoloso, quin­di interessante, quindi (a vol­te) da vietare. Così facendo si torna a riconoscergli un inte­resse, lo si toglie dal suo status di videogioco personalizzato rimettendolo al posto di even­to misterioso, inquietante, che fa risuonare corde altri­menti mute.