Maurizio Chierici, il Fatto Quotidiano 29/7/2010;, 29 luglio 2010
TRE VITE UNA SOLA MORTE - SONIA
La vacanza è finita. Sonia Zanotti torna a casa con la malinconia. Non vuol lasciare amiche, cugini, i prati di Castel del Rio, Appennino sopra Imola dove nessuno la obbliga a comportarsi come deve comportarsi una ragazza che ha finito la quinta: 11 anni, il papà carabiniere e la madre che guida il taxi a volte non sopportano il suo argento vivo. Rosa Rita è la cugina grande che l’accompagna a Ortisei, Val Gardena. Sveglia quando è buio, chiacchiere fino a Bologna nell’automobile dello zio. Vestito a fiorellini rosa, zoccoli rossi, capelli corti, sorriso abbronzato. “Il treno delle 8:30 se ne va sotto il nostro naso. Che rabbia. Il prossimo per Bolzano fra tre ore. Caldo come a mezzogiorno. Ci rifugiamo nella sala d’attesa di seconda classe. Gente, valigie una sopra l’altra, si soffoca; io torno e gli altri vanno in vacanza. A metà mattina ho fame e Rosa Rita compra un panino con la frittata. Sto masticando e poi l’esplosione. Volo come una piuma, non ricordo niente. Mi sveglio e non so dove sono. Apro gli occhi ma devo chiuderli: la polvere mi schiaccia. Con la mano provo a tastare il pavimento. Non un pavimento; pezzi di qualcosa. Attorno i lamenti di chi grida aiuto. Dove è finita Rosa Rita? Eravamo vicine, lei chiamava, non la sentivo. La gamba destra è solo dolore. Non riuscivo ad aprire la bocca. Provo a trascinarmi verso la luce, forse l’uscita. Impossibile, non ce la faccio. Il tempo passa e non viene nessuno. Ore, pensavo. Poi è arrivato qualcuno, mi ha preso fra le braccia e portato via. Non erano ore, l’ho saputo dopo: alle 10:45 cominciano a curarmi al Sant’Orsola. La notte in sala operatoria per salvarmi la gamba, e poi al centro grandi ustionati di Verona e un mese in chirurgia plastica: cure che non finiscono mai. Per settimane mi hanno raccontato bugie: una sciocchezza, guarisci ogni giorno di più, invece restavo tra la vita e la morte. Nell’autolettiga di quel mattino ricordo le voci di chi mi accompagnava. ‘Deve essere scoppiata una caldaia’. Ma i pensieri erano diversi: come mai ho tanto freddo quando un minuto fa avevo tanto caldo?”.
Sonia è stata una bambina che ha perso l’adolescenza e la sua vita è cambiata. Addio alle arrampicate in montagna e agli sci che la facevano volare nelle prime gare nazionali. E quelle cicatrici sulle gambe. Vinto un concorso passa la vita in un ufficio. Si sposa, due figli, ma la felicità che immaginava era diversa. “Ho 41 anni, sono pensionata precaria. Una legge 2004 manda a riposo chi è gravemente segnato da una tragedia. Adesso Roma ci sta ripensando. Ancora una volta devo aspettare cosa decidono gli altri”.
TONINO Braccia esce dalla caserma dei carabinieri di Bologna vestito di lino bianco: a Roma si sposa una cugina. Arriva in stazione alle 10. C’è un treno che parte ma ferma ad ogni stazione. Meglio aspettare il diretto delle 10:45. Accende una sigaretta e subito la spegne: l’aria è bollente. Si appoggia alla porta d’ingresso della sala d’attesa, seconda classe. Le 10:18. Nel primo binario arriva un treno da Ginevra. Scendono ragazzi con bandierine mai viste. “Una gita”, pensa: “Devono essere stranieri”. Sfila la giacca che ripiega con cura sul braccio destro per non sgualcirla. Ha 19 anni. “Non ho sentito il colpo. Mi sveglia l’acqua di un tubo rotto, mi trovo sotto qualcosa che sembra un treno. Allora è stata una bomba, penso. Col braccio destro cerco il braccio sinistro che non sento più. Me lo tiro sulla pancia e aspetto. Due ragazzi si piegano sotto il treno, faccio segno con la mano ma se ne vanno. E non tornano, e non sento ormai dolore. Allora sto morendo, penso, e mi vien da piangere. Ecco le voci dei ragazzi: mi prendono per le spalle e per le gambe. Come tornare in stazione con davanti un muro di ferraglie? Cercano il passaggio di un vagone non squarciato. Salgono e scendono dal treno e mi adagiano nel piazzale sul marciapiede degli autobus. Nell’autolettiga gialla c’è un altro ferito. Perdo conoscenza mentre mi chiedono: chi sei, dove abiti, perché eri qui?”. Tonino si sveglia dopo l’operazione. Sul monitor della rianimazione madre e padre l’osservano. La madre cura l’orto, il padre se n’era andato da Selva d’Altino, sopra Chieti, a cercare lavoro in Svizzera e Germania. La madre non si muove dall’ospedale fino ad ottobre. Dopo 24 interventi e trapianto di omero anche Tonino torna alla sua montagna. “Non ho mai accettato l’idea che a 19 anni ero finito, un occhio spento, il corpo ricucito e non potevo far niente”. Forse è l’angoscia che ha distrutto il primo matrimonio. Si è risposato con un infermiera. Chissà per quale destino il figlio Nicolò lavora nelle ferrovie.
IL CRONISTA. Quel mattino ha attraversato due volte la stazione: per accompagnare al treno il fotografo che tornava a Milano dopo l’incontro con gli ebrei di Ferrara, che il fascismo aveva costretto alla scuola-ghetto di Vigna Tagliata, cancelli chiusi per Giorgio Bassani al circolo del tennis degli amici di Italo Balbo. Fantasmi che l’esodo d’agosto aveva sciolto nell’allegria, voglia di vivere dell’Italia delle valige, voci dell’Italia delle vacanze. Nella fila del bar che si appoggia alla sala d’attesa della seconda classe c’è anche Isabella Bossi Fedrigotti, lavora al Corriere. Lei e il fotografo torneranno assieme. Si infastidiscono per la lite tra i due ragazzi che distribuiscono il caffè. Uno accusa l’altro di passargli tazze bollenti. L’altro risponde che se ha mani di fata non è colpa sua. Non smettono, si insultano. E il giornalista riprende l’auto per Firenze, ma dieci minuti dopo la radio interrompe le canzoni: “Una violenta esplosione ha fatto crollare 50 metri della stazione di Bologna. Ospitava il ristorante e due sale d’attesa, prima e seconda classe. Il conteggio delle vittime è ancora impossibile, sicuramente più di dieci”. Inverte la marcia e scopre una città bombardata: qualche lamento, i morti sono ancora lì, macerie, i feriti quasi tutti via. Il giornalista va in ospedale a cercare i nomi degli amici, telefona al Corriere: per ore, niente. Finalmente rispondono che sono arrivati. Erano partiti da pochi minuti quando il treno s’è fermato tra Bologna e Modena, nessuna spiegazione. La radiolina di un viaggiatore aveva aperto il passaparola della terribile verità. Nel 1981 la stazione di Bologna torna nella vita del cronista: Libero Mancuso, magistrato che indaga sulla strage, ha letto l’intervista sul Corriere ad Abu Jyad, che comanda i servizi segreti palestinesi. Racconta di aver fermato un gruppo di italiani reduci dai campi di addestramento militare dei cristiano-maroniti. Fra i documenti il progetto dell’attentato ad una stazione. Mancuso fa due domande. Il giornalista allunga il nastro del colloquio: “C’è la voce del traduttore…”. “Non si preoccupi, traduciamo noi”. Forse la pista buona, semplifica il giornalista. Ma le piste sono tante. E alla vigilia dei 30 anni il giornalista ascolta in tv il giudice Priore: chiede di rivedere il processo perché nella strage c’è una mano palestinese. Da dove ricominciare?