Filippo Facci, Libero 28/7/2010, 28 luglio 2010
INTERNET NON È UN PORTO FRANCO ANCHE CHI SCRIVE UN BLOG HA L’OBBLIGO DI FARE RETTIFICHE
Tu, se il tuo giornale ospita opinioni o notizie false o diffamatorie, hai tempo due giorni per accogliere una rettifica che rimetta a posto le cose. Questo è perfettamente normale: è così dal 1948, quando in Italia fu varata la legge sulla stampa. Oggi, cioè 62 anni dopo, i giornali sono diventati talvolta elettronici e circolano come sappiamo anche via internet, dunque c’era da specificare che nondimeno via internet dovrebbe valere la stessa regola, anzi, dovrebbe valere anche di più per via della facilità con cui una notizia falsa o diffamatoria può diffondersi in rete. Ebbene, questa logica elementare è divenuta «legge bavaglio alla rete», «internet, ultimi giorni di libertà», «l’Italia va verso la Cina»: sono titoli de Il Fatto, che noi si prende regolarmente a esempio per tastare il polso a un certo mondo fanatico e delirante.
GLI ALTRI
Ma non ci sono solo loro a urlacchiare sciocchezze: c’è anche una fetta di opposizione (tipo Di Pietro, il solito) oppure ci sono immancabili appelli tipo uno che è stato sottoscritto da vari personaggi tra i quali, incredibilmente, Filippo Rossi (FareFuturo) e Vittorio Zambardino (Scene digitali) e Alessandro Gilioli (Piovono Rane). Che poi, in realtà, piovono bufale: l’appello se la prende con il comma 29 dell’art. 1 del disgraziato e ormai inutile dlsegno di legge sulle intercettazioni (comicamente sabotato e devitalizzato, sappiamo) laddove l’onorevole Giulia Bongiorno ha previsto che anche un blogger, qualora non proceda a rettifica entro 48 ore dalla richiesta, possa andare incontro a una sanzione sino a un massimo di 12mila e 500 euro: «Come se fosse un giornalista», osservano allarmati gli appellanti. Come se fosse un cittadino normale, osserviamo noi: diffamare infatti non è vietato ai giornalisti, è vietato e basta, ed è vietato su un giornale come su un murales o al bar. Ergo, è vietato in rete: ma questo, secondo i citati, significa dissuadere il povero blogger «dall’occuparsi di temi suscettibili di urtare la sensibilità dei poteri economici e politici», del resto parliamo de «l’atto finale di uno dei più gravi attentati alla libertà di informazione sin qui consumati nel Palazzo».
Come detto, il perché continua a non essere chiaro: per evitare problemi, infatti, basterebbe responsabilizzarsi come le persone normali; basterebbe non avere la pretesa, che è propria di molti blogger, di poter scrivere qualsiasi porcata su chicchessia chiamando «democrazia» o «libertà di opinione» la propria anarchica libertà di sputtanare senza avere la facoltà di controllare, informarsi, rispettare, andarci cauto con le vite altrui: quella è robaccia da giornalisti.
La faccenda è tutta qui, non si capisce altro: se non che gli eroici oppositori del neo «bavaglio» sostengono che i poveri blogger, spesso, sono solo giovani senza soldi che finirebbero per non scrivere nulla perché avrebbero paura. Dei poveretti, cioè.
IRRESPONSABILITÀ
La verità la conosce qualsiasi persona cerebralmente dotata: costoro al di là dei fatto che prefigurare un clima cileno è ormai una moda politicamente utile vogliono che la rete resti un porto franco in cui permanga quell’irresponsabilità che era propria della fase pionieristica di internet: che sfuggiva a qualsiasi regola, come accade a tutto ciò che è nuovo e crea perciò un vuoto legislativo. Chissà, forse reclamavano un porto franco anche i primi fruitori della radio libere, delle prime tv locali, non sarebbe strano. Sta di fatto che certi blogger, nel credersi una razza a parte, si credono alternativi anziché complementari alla realtà e alle regole minime con cui tutti devono rapportarsi a tutti gli altri, che per contro sono visti come vecchi dinosauri che «non capiscono la rete. Come se ci fosse chissaché da capire. Simbolo ne resta quell’anonimato dietro il quale milioni di cuor di leoni abitualmente lanciano sassate e nascondono la tastiera: risalire a un responsabile, in internet, resta un’impresa disperata o inutile.
Male non fare, paura non avere: la regola resta quella di sempre. Hanno da temere solo gli ignoranti, i cretini e gli anonimi: categorie che in internet, va riconosciuto, denotano una certa rappresentanza sindacale. Ieri il nostro quotidiano preferito, Il Fatto, paragonava la situazione italiana a quella di Birmania, Cina, Iran, Arabia Saudita e Vietnam: tutte nazioni in cui la semplice circolazione delle idee (non diffamazioni: idee) è punita anche con la pena di morte. Ecco, dire questo non è diffamatorio, stiano tranquilli: è solo stupido.