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 2010  luglio 28 Mercoledì calendario

Il dodecaedro magico dei Galli - Un simbolo sacro per i Druidi o una punta di scettro? Un calibro o un candelabro? Nessuno sa che cosa sia davvero, anche se, tra musei e collezioni private, se ne contano oltre un centinaio di esemplari

Il dodecaedro magico dei Galli - Un simbolo sacro per i Druidi o una punta di scettro? Un calibro o un candelabro? Nessuno sa che cosa sia davvero, anche se, tra musei e collezioni private, se ne contano oltre un centinaio di esemplari. È un piccolo manufatto in metallo cavo, di forma vagamente sferica e di raffinata fattura, databile tra I e IV secolo e di origine gallo-romana. A parte la varietà di disegni e dimensioni, è sempre composto di 12 pentagoni regolari e per questo è conosciuto come «dodecaedro romano». Un oggetto in apparenza semplice, ma in realtà una capsula del tempo, che racchiude un’incredibile densità di storia e mito. Di sé non svela molto: non ci sono iscrizioni sulle superfici decorate, né documenti che ne parlino o raffigurazioni che lo riproducano. Si contano ormai 27 teorie sul suo utilizzo, spaziando dal gioco alla divinazione, dalla funzione ornamentale a quella geodetica o militare. Ma, se gli studiosi si sono arresi, forse spetterà a un archeologo dilettante, l’olandese Sjra Wagemans, il merito di aver chiarito il mistero. La prima descrizione Citato nel «Timeo», il dodecaedro è - con tetraedro, ottaedro, cubo e icosaedro - uno dei cinque Solidi Platonici. Figura geometrica alquanto complessa, sarebbe stata descritta la prima volta nel V secolo a.C. dal pitagorico Ippaso di Metaponto e, secondo la leggenda, l’impresa gli costò la vita. Poi, il fascino dei poliedri, legato alla loro simmetria e dunque all’armonia delle proporzioni e alle proprietà matematiche, ha continuato a sedurre artisti e scienziati, da Euclide a Poincaré, da Leonardo a Luca Pacioli, fino a Escher. Così, nei secoli, il dodecaedro ha accumulato valenze magico-simboliche, che dai Greci, passando attraverso i Celti, arrivano al Rinascimento e alla modernità. Essendo il più grande poliedro regolare inscrivibile in una sfera, fu associato tanto da Platone quanto dal matematico del XVI secolo Francesco Maurolico all’Universo nella sua totalità. Un’idea destinata a fare strada: nel 2003 l’astronomo Jean-Pierre Luminet, basandosi su dati forniti dalla sonda «Wmap» (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe) - creato per osservare il fondo cosmico di radiazione nelle microonde -, ha ipotizzato che il cosmo abbia proprio la forma di un dodecaedro con un diametro di 70 miliardi di anni luce. Solo coincidenze tra scienza e sapienza pitagorica? Intanto gli archeologi non hanno smesso le loro ricerche. Tutti i «dodecaedri romani» arrivati fino a noi - sottolineano - hanno un diametro tra 4 e 11 cm. e presentano al centro delle 12 facce dei fori di diversa misura. Ognuno dei 20 vertici è sormontato da una o 3 sferette, che, forse, hanno solo una funzione ornamentale oppure, come piedini, devono mantenere l’oggetto sollevato dal piano d’appoggio. A parte un esemplare in ferro (trovato a Kenchester in Inghilterra) e quello d’argento riemerso a Ginevra e decorato con i segni zodiacali, gli altri sono in bronzo, lega alla quale i Celti attribuivano poteri magici. Se il dodecaedro, inteso come figura geometrica, era ben conosciuto in Italia, nessuno di questi misteriosi oggetti è stato ritrovato a Nord del Vallo d’Adriano o a Sud delle Alpi, in Italia, Grecia o Spagna o lungo le coste del Mediterraneo. Gli esemplari noti, presenti in vari musei europei, provengono sempre dalla Gallia Transalpina e dalle terre dei Celti: Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Germania, Svizzera, Austria ed Europa orientale. Perché? È una domanda che finora non ha trovato risposte convincenti. Purtroppo solo in pochi casi si hanno notizie certe sui luoghi dei ritrovamenti: accampamenti militari, edifici rurali, la tomba di una donna facoltosa, le vicinanze di teatri o di terme. Prova di tenacia Ed ecco entrare in scena Sjra Wagemans, tecnico di laboratorio alla multinazionale olandese DSM Research e appassionato di archeologia. Grazie alla sua formazione tecnico-scientifica, e a una certa tenacia, si è messo a verificare varie ipotesi e, dopo averle scartate, ha elaborato una nuova tesi, che assegna all’oggetto una funzione astronomica. Con l’aiuto del Rijksmuseum van Oudheden di Leida, che possiede due esemplari, Sjra ha realizzato una copia in bronzo del dodecaedro e ogni autunno, dal ‘98 al 2009, l’ha usata per verificare la sua ipotesi. Ha scoperto, infatti, che i raggi del Sole allo zenit, attraversando i due fori maggiori del poliedro, sempre opposti, proiettano sul piano sottostante una macchia luminosa che, in base alla latitudine, indica gli equinozi di primavera e d’autunno. Il dodecaedro sarebbe quindi legato ai cicli dell’agricoltura: un mezzo sofisticato e semplice al tempo stesso per determinare, senza calendario, il momento più favorevole alla semina autunnale del grano. Un momento molto delicato, perché un errore avrebbe compromesso i raccolti, e una scelta di vitale importanza per le legioni romane delle fredde regioni nord-occidentali d’Europa che dovevano provvedere al proprio sostentamento. Ma perché non usare il calendario, portato dai Romani in tutto l’Impero? Perché il Sole è affidabile e la sua luce parla una lingua universale, che prescinde dalle tradizioni locali, dai dialetti e dai calcoli degli umani. Già nel I secolo, infatti, c’era grande confusione sulle date: il Calendario Giuliano, adottato nel 46 a.C., aveva accumulato uno scarto crescente con l’anno solare, tanto che nel 325 il Concilio di Nicea spostò l’equinozio di primavera dal 25 al 21 marzo per correggere l’errore. Finché, nel IV secolo, con la fine dell’Impero, anche i dodecaedri caddero in disuso. Ora, nel sito www.romandodecahedron.com, Wagemans illustra la sua ricerca e attende commenti.