ENRICO MARTINET, La Stampa 28/7/2010, pagina 21, 28 luglio 2010
C’è posta per te dai ghiacci del Bianco (2 articoli) - Coincidenze. Parli di una sciagura in un luogo dove è avvenuta e qualcosa che le appartiene si materializza
C’è posta per te dai ghiacci del Bianco (2 articoli) -
Coincidenze. Parli di una sciagura in un luogo dove è avvenuta e qualcosa che le appartiene si materializza. E che pensi? «Che sia un gioco, un macabro scherzo dei miei compagni di corso», dice Freya Alice Lucy Cowan, 22 anni, di Edimburgo, studentessa del terzo anno di Geografia all’Università di Dundee. Neanche a dirlo, tutto vero. Freya si è ritrovata tra i piedi sul ghiacciaio del Miage, nella candida quanto fradicia neve aggredita dalla calura estiva, un involucro mal ridotto con 75 lettere del 1950 che facevano parte del carico del «Malabar Princess», aereo indiano esploso nell’impatto contro la vetta del Monte Bianco.
«Non potevo crederci - dice Freya -. Fino a qualche minuto prima avevo parlato con i miei compagni di università di quel disastro. Mi è accaduta una cosa straordinaria. Lettere di 60 anni fa riemerse dopo aver “camminato” nel ghiaccio per due chilometri. Ora sto cercando a uno a uno figli e nipoti dei destinatari di allora, perché voglio che quelle parole finiscano il loro viaggio». La studentessa era sul grande ghiacciaio del Miage, qualche settimana fa, con il glaciologo Tim Reid e alcuni compagni. Carte topografiche e glaciologiche per orientarsi e soprattutto per misurare quanto le follie meteo di questi anni avessero mangiato il ghiaccio. Calcoli complessi, ricerca per l’università sul riscaldamento climatico. Il Miage è come un gigantesco imbuto che vien giù tra i pilastri del Monte Bianco fino alla Val Veny. Professore e allievi guardavano verso il cielo per cercare il punto dove nella tarda mattinata del 10 novembre 1950 il «Costellation» quadrimotore dell’Air India, partito da Bombay e diretto a Londra, si infilò in una bufera di neve e si schiantò contro la Tournette, dove la vetta del Bianco di Courmayeur crea grandi ombre.
Morirono in 48, sette indù dell’equipaggio, un pilota inglese e 40 passeggeri, marinai che dovevano raggiungere una nave a Sunderland. Non si capì mai il motivo dell’errore di rotta del pilota inglese, che avrebbe dovuto fare uno scalo tecnico a Ginevra. Quando comunicò il suo imminente arrivo alla torre di controllo dell’aeroporto ginevrino, era molto più a Nord del massiccio montuoso. Nella pancia del «Malabar Princess» c’erano anche bauli di corripondenza. Parecchie lettere seguirono la furia della neve di quei giorni e si posarono su tetti e vie di Chamonix. Altre s’inabissarono nei crepacci con la maggior parte dei poveri resti dei passeggeri. Un’ala del «Costellation» rimase conficcata nel ghiaccio sul versante italiano. Fu avvistata da un aereo svizzero due giorni dopo la sciagura, quando la bufera si placò. E fu tragica anche la salita dei soccorritori da Chamonix: morì in un crepaccio la guida René Payot. Il figlio, Georges, qualche anno fa regalò al cercatore di relitti Alain Roche un pezzo di carlinga del «Malabar Princess» da lui autografato.
In 60 anni, valanghe e cambiamenti climatici hanno trascinato ciò che rimase del «Costellation» sul ghiacciaio del Miage. Freya ha trovato forse l’ultimo involucro di lettere, salvate per così tanto tempo dal ghiaccio. «Qualcuna - dice - è ridotta a pezzi». Ma molte hanno indirizzi e contenuti leggibili. Le 75 lettere erano tutte dirette negli Usa: messaggi di auguri, racconti di missionari, con speranze e paure.
In una missiva, datata 30 ottobre 1950, una missionaria scrive a una certa signora Moore dell’Ohio con ironia: «Non ho mai tempo di rispondere alle lettere prima di un’ora da quando la ricevo, ma ci sono alcune cose nella tua di cui vorrei parlarti». Quasi come se non avesse nessuna intenzione di inviarla. Lo scritto si fa poi molto serio e preoccupato: «Tra la gente qui cresce un sentimento anti-missionario. Sento che tuttò ciò deriva da una sola fonte e ho pregato spesso che essa emergesse». Freya Cowan dice: «Siamo stati fortunati a trovare molti indirizzi e abbiamo spedito ciò che è rimasto negli Usa».
Il mistero del «Malabar Princess» si ripeté nel 1966, quando non distante dalla Tournette si schiantò un altro aereo dell’Air India, il Boeing 707 «Kangchenjunga». Coincidenze, come quella che ha portato Freya Cowan a scegliere come etica di vita una frase di Gandhi: «Vivi come se tu dovessi morire domani. Impara come se tu dovessi vivere per sempre».
ENRICO MARTINET
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Qualche giorno fa la signora Smith, nella sua casa del Texas, ha risposto a una telefonata di uno sconosciuto che si qualificava come professore dell’Università di Dundee. «Mio padre? Una lettera? Non capisco, ma è incredibile». Chi parlava con lei al telefono era il glaciologo Tim Reid, reduce dalla campagna di ricerca sui ghiacciai del Monte Bianco con alcuni studenti, tra cui Freya Cowan.
Il professore ha spiegato quanto accaduto e ha assicurato: «Non appena riusciremo a restaurare per bene la lettera di suo padre gliela spediremo». Il texano che scriveva nel 1950 da Bombay era Hank Smith, aviatore, morto nel 1999. Sessant’anni fa scriveva delle sue avventure in India e in Medio Oriente. Si dilunga su quanto accadutogli nella terza città dell’Iraq, Bassora, capitale dell’omonima regione. La definisce una «storia pazzesca». Hank scriveva a casa o forse a qualche amico, la busta con l’indirizzo è cancellata.
Si legge: «Ho avuto problemi nel volo a Bassora, un guasto. Così siamo atterrati vicino alla base militare inglese. L’acqua scarseggiava e non so dire quanta birra ho bevuto per togliermi l’arsura. Sono rimasto bloccato lì quattro settimane, in attesa che il guasto dell’aereo fosse riparato. Non era semplice come si pensava. Le riparazioni sono durate più del previsto anche per le continue incursioni di tribù beduine che tentavano di rubare le attrezzature dell’aereo e tutto quanto trasportava. Abbiamo dovuto far intervenire parecchie volte i militari della base inglese»./
Nell’estate del 1985 due alpinisti piemontesi Giancarlo Grassi e Carlo Stratta, mentre salivano sul Monte Bianco, furono abbagliati da quello che Stratta definì «un miraggio». Sotto un velo di ghiaccio apparve loro la silhouette di una danzatrice del ventre. L’immagine era reale, era la coda del «Kangchenjunga, il Boeing con 117 persone a bordo che esplose a qualche metro dalla vetta del Bianco il 24 gennaio del 1966. La danzatrice è il simbolo della compagnia aerea. A bordo di quell’aereo c’era un marajà, oltre al fisico Homi Jehangir Baha, presidente del comitato dell’energia atomica indiana. Si favoleggiò che nella stiva del Boeing ci fosse una grande quantità di gioielli. E quell’estate sul Bianco si scatenò una «caccia al tesoro».